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Spetta al giudice penale la determinazione dell’imposta evasa

Spetta al giudice penale la determinazione del superamento della soglia di imposta evasa prevista per l’integrazione del reato di dichiarazione infedele.

Lo ha stabilito la Cassazione con sentenza 12 ottobre 2015, n. 40755 con la quale ha stabilito i seguenti principi di diritto:

– ai fini dell’individuazione del superamento della soglia di punibilità prevista per il reato di dichiarazione infedele spetta unicamente al Giudice penale procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, con una verifica che può sovrapporsi e/o contraddire quella eventualmente svolta dal Giudice tributario;

– il giudice penale, nell’accertamento e determinazione dell’imposta evasa, non può prescindere dalla pretesa tributaria così come accertata dall’Amministrazione finanziaria e per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall’accertamento deve disporre di concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’originaria quantificazione dell’imposta dovuta.

Per il reato di infedele dichiarazione vale la data di spedizione della fattura

La data di riferimento per la configurazione del reato di dichiarazione infedele è quella della spedizione della fattura e non quella riportata nel documento.

E’ quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Cassazione 10 agosto 2015, n. 34722, riguardante una società che aveva emesso fatture per servizi resi con data 31 dicembre, ma spedite nel successivo mese di gennaio e non indicate nella dichiarazione dei redditi dell’anno indicato in fattura. La Suprema Corte, specificando che l’articolo 21 del Dpr 633/72 precisa che «la fattura si ha per emessa all’atto della sua consegna o spedizione all’altra parte ovvero all’atto della sua trasmissione per via elettronica». Di conseguenza le fatture, pur datate 31 dicembre 2002, dovevano avere rilievo nella dichiarazione Iva 2004, perché solo in quell’anno erano state spedite al cliente.

La crisi non giustifica il mancato versamento di imposte

Per la terza sezione penale della Corte di Cassazione, per non rispondere dei reati di omesso versamento delle imposte non è sufficiente provare la crisi economica che ha investito l’azienda ma è necessario documentare anche l’effettiva impossibilità per l’imprenditore di fronteggiare altrimenti la crisi. Non basta così argomentare l’inadempimento con il mancato incasso di crediti vantati e il pagamento degli stipendi ai dipendenti.
Secondo la Suprema Corte potrebbero verificarsi casi in cui sia possibile invocare l’assenza di dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere all’obbligazione tributaria, il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito.
È necessario, però, l’assolvimento degli oneri di allegazione che, circa la crisi di liquidità, devono avere attinenza, non soltanto all’aspetto della non imputabilità all’azienda della crisi economica, ma anche all’impossibilità di non poterla adeguatamente fronteggiare tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, di idonee misure da valutarsi in concreto.

Cassazione, sez. III penale, sentenza 7429