Accertamento induttivo e sbilancio di contabilità (Cass. 16.12.2009, n. 26341)
Corte di Cassazione, sez. trib., sentenze 16 dicembre 2009, n. 26341
Svolgimento del processo
A seguito dell’esame della dichiarazione IVA relativa all’anno 1993 presentata dalla ditta […]che
esponeva un credito IVA chiesto a rimborso per L. 17.470.000, derivante anche da riporti di anni
precedenti, l’Ufficio IVA di Ancona disponeva controllo contabile. Da tale controllo emergeva che
per gli anni 1991, 1992, 1993 la contabilità della ditta evidenziava un volume di affari inferiore al
costo del venduto con aumento anomalo delle scorte di magazzino ed insufficienza dei ricavi a
coprire i costi di gestione, anche in forza delle basse percentuali di ricarico.
Tale situazione era particolarmente evidente nel 1993, per cui l’Ufficio emetteva nel 1999 avviso di
accertamento per tale anno, determinando una percentuale di ricarico sulle merci vendute pari al
30%, così portando in attivo la gestione, con integrazione del volume di affari dichiarato di L.
735.866.000 con la somma di L. 126.469.500, cui corrispondeva IVA per L. 15.176.000, il cui
rimborso veniva quindi negato. Non erano applicate sanzioni ai sensi del disposto di cui al D.Lgs. n.
472 del 1997, art. 8 essendo deceduto il titolare della impresa in data 10/9/1994, cui era
successivamente subentrato il nuovo titolare A.V.. Questi impugnava l’avviso di accertamento
innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Ancona, la quale accoglieva il ricorso con
sentenza n. 45/04/01 in data 13/3/2001.
Appellava l’Ufficio e la Commissione Tributaria Regionale delle Marche con sentenza n. 53/8/04 in
data 14/12/2004, depositata in pari data, respingeva il gravame, confermando la decisione
impugnata. Propongono ricorso per Cassazione il Ministero della Economia e delle Finanze e la
Agenzia delle Entrate, con un motivo. La ditta intimata non svolge attività difensiva.
Motivi della decisione
Preliminarmente, va rilevata la inammissibilità del ricorso proposto dal Ministero della Economia e
della Finanze: nel caso di specie al giudizio innanzi la Commissione Regionale ha partecipato
l’ufficio periferico di Ancona della Agenzia delle Entrate, successore a titolo particolare del
Ministero, ed il contraddittorio è stato accettato dal contribuente senza sollevare alcuna eccezione
sulla mancata partecipazione del Ministero, che così risulta, come costantemente ha rilevato la
giurisprudenza di questa Corte, (ex plurimis v. Cass. n. 3557/2005) estromesso implicitamente dal
giudizio, con la conseguenza che la legittimazione a proporre ricorso per Cassazione sussisteva
unicamente in capo alla Agenzia. L’Agenzia deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n.
633 del 1972, art. 55 e dell’art. 2697 c.c. e segg. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la
Commissione ritenuto, sulla premessa che le scritture contabili erano regolari e non erano emerse
infedeltà ed omissioni, che l’accertamento induttivo fosse illegittimo perchè l’unico presupposto era
la insufficienza del valore aggiunto dichiarato, ovvero della percentuale di ricarico, che, ad avviso
dell’Ufficio, faceva presumere la inattendibilità dei dati esposti dal contribuente; dato che non
poteva essere sostituito da altro tratto dalle medie di settore, a sua volta frutto di valutazioni
meramente statistiche inidonee a loro volta ad integrare una prova presuntiva sufficientemente
attendibile.
Sostiene l’Agenzia, in primo luogo, che la tenuta di contabilità in maniera formalmente regolare
non è di ostacolo alla rettifica dei redditi di impresa delle persone fisiche, in presenza di un
comportamento imprenditoriale assolutamente contrario ai canoni della economia; ed inoltre che
non erano state applicati i ricarichi medi di settore, bensì ricarichi minimi, quantificati in modo tale
“da garantire almeno la sopravvivenza della attività commerciale in questione”. Il motivo non è
fondato.
È indubbiamente esatto che per consolidata giurisprudenza può procedersi ad accertamento
induttivo anche in caso di contabilità formalmente regolare, nel caso in cui l’attendibilità della
stessa risulti inficiata da presunzioni contrarie anche semplici, purchè siano gravi, precise e
concordanti (v. Cass. n. 7184 del 2009). Ed inoltre, ai sensi del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62
sexies convertito in L. 29 ottobre 1993, n. 427, l’Ufficio può procedere ad accertamento induttivo
anche in caso di contabilità apparentemente regolare, in deroga ai limiti di cui al D.P.R. n. 633 del
1972, artt. 54 e 55 anche in caso di esistenza di “gravi incongruenze” tra i ricavi, i compensi ed i
corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di
esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dello stesso
D.L. n. 331 del 1993, art. 62 bis.
Nella specie, tuttavia, a tenore del ricorso, l’unica presunzione in forza della quale si è proceduto ad
accertamento induttivo in presenza di contabilità formalmente regolare è costituito dallo sbilancio
tra costi e ricavi. Dichiaratamente, non vi è riferimento alcuno a studi di settore od indagini
statistiche mirate, talchè in ricorso nemmeno si nomina la natura della attività commerciale svolta
dalla intimata ed il tipo di merce trattata (dalla sentenza impugnata emerge trattarsi di commercio
all’ingrosso di capi di abbigliamento).
La limitatezza della argomentazione presuntiva presa a fondamento postula che lo stato economico
della ditta presenti caratteristiche di stranezza, singolarità, contrasto con elementari regole
economiche di esperienza da essere immediatamente percepibile come inattendibile secondo il
senso comune.
Così non è: i dati dell’anno in contestazione sono i seguenti: spese per acquisti L. 778.389.000;
spese per personale L. 49.000.000; ricavi L. 735.866.000. Lo sbilancio assomma a L. 91.523.000;
un dato certo rilevante, ma non singolare o tale da prospettare di per sè, ove veritiero, il fallimento
dell’impresa. Peraltro, manca ogni accenno allo stato patrimoniale della medesima impresa
commerciale. Quanto ai risultati degli esercizi 1991 e 1992 che a dire dell’Ufficio dovrebbero
corroborare l’assunto di inattendibilità della contabilità, i dati esposti in ricorso sono limitati e non
documentati, in violazione dei principi di autosufficienza del ricorso; ma, anche ove assunti come
validi, il risultato di deficit commerciale significativo, ma non ingente ed apparentemente
insostenibile, non cambia. Nè può essere assunta a convalida della condotta dell’Ufficio, quale
ulteriore elemento presuntivo di segno negativo, l’assenza di giustificazione di tale condotta da
parte del titolare dell’impresa responsabile della gestione in quanto tale soggetto, l’unico in grado di
fornire chiarimenti, come dichiarato dall’Ufficio, era deceduto nel 1994, circa 5 anni prima
dell’accertamento.
Ne consegue che gli elementi presuntivi su cui si è basato l’Ufficio non sono nè gravi, nè precisi, nè
concordanti.
L’accertamento è pertanto illegittimo, come ritenuto dai giudici di merito. L’argomento di cui sopra
ha natura assorbente. Peraltro, non appare inutile osservare che la misura di ricarico applicata,
svincolata da studi di settore mirati, e tesa soltanto a portare in lieve avanzo il bilancio (e ad
azzerare praticamente il credito di IVA del contribuente) è del tutto arbitraria, in quanto la mera
enunciazione dello scopo prefisso non può certo sostituire un criterio razionale di determinazione
della entità della variazione, che deve preesistere alla stessa e prescindere dall’effetto della
medesima sul bilancio della società.
Il ricorso deve quindi essere rigettato.
Nulla per le spese, non avendo la intimata svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso del Ministero; rigetta il ricorso della Agenzia. Nulla per
le spese.