Imposte e tributi – Accertamento – Integrazione o modifica dell’avviso di accertamento – Condizioni
Sentenza Cassazione del 20/06/2007 n. 14377
Intitolazione:
Imposte e tributi – Accertamento – Integrazione o modifica
dell’avviso di accertamento – Condizioni.
Massima:
Non rientra nel divieto, posto dall’art. 43, comma 3, del D.P.R. 29
settembre 1973, n. 600, di modificazione o integrazione dell’accertamento
sulla base degli stessi elementi in possesso dell’ufficio, l’accertamento
che ha per oggetto redditi distinti e diversi da quelli precedentemente
verificati.
*Massima redatta dal Servizio di documentazione economica e tributaria.
Testo:
1. Svolgimento del processo
Il primo ufficio distrettuale delle imposte dirette di Milano notificava
a S.C. un avviso di accertamento ai fini Irpef ed Ilor, relativo al 1991,
integrativo di quello precedentemente notificato con l’ulteriore
contestazione di redditi di capitale non dichiarati per lire 6.584.000.000.
S.C. impugnava l’avviso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale
di Milano, lamentando preliminarmente l’inesistenza della notifica
dell’atto, consegnatogli in fotocopia nella casa circondariale nella quale
era, all’epoca, ristretto.
Deduceva, inoltre, che l’atto in questione costituiva un’inammissibile
integrazione del precedente atto, gia’ da lui impugnato perche’ mancante
dell’indicazione delle aliquote applicate. Il primo accertamento era stato,
nel frattempo, annullato con sentenza della Commissione tributaria
provinciale, la cui decisione era stata confermata in sede d’appello e non
impugnata dall’ufficio. L’accertamento ai fini Ilor era stato,
successivamente, annullato in via di autotutela su sollecitazione
dell’interessato.
Con sentenza in data 8 marzo 1999 la Commissione provinciale, disattesa
la questione di invalidita’ della notifica, accoglieva il ricorso,
osservando:
– era da ritenersi invalida l’utilizzazione di elementi acquisiti in
sede procedimento penale, sui quali si fondava essenzialmente
l’accertamento, trattandosi di copie di documenti che, secondo l’art. 116
del codice di procedura civile, avrebbero dovuto essere rilasciate dal
Presidente di Sezione della Corte d’appello, alla quale era assegnato il
processo, mentre il rilascio era avvenuto ad opera del pubblico mistero al
momento della dichiarazione dei redditi, non sussisteva alcun obbligo di
includervi gli investimenti intrattenuti all’estero, anche perche’ si
trattava di redditi soggetti a ritenuta alla fonte ai sensi degli artt. 26 e
27 del D.P.R. n. 600/1973 e, comunque, ne veniva contestata dall’Autorita’
giudiziaria la provenienza da fatti illeciti, per i quali non vi era obbligo
di dichiarazione;
– anche a prescindere dall’irregolare acquisizione di elementi
probatori del processo penale, vi era da ritenere che l’ufficio non poteva
recepire acriticamente il contenuto del verbale della polizia tributaria,
dovendo sottoporli a propria ed autonoma critica. I processi verbali di
constatazione della Guardia di finanza non possono, infatti, contenere un
accertamento, ma soltanto un rilevamento e una raccolta di dati, fatti e
notizie. Pertanto, una motivazione dell’accertamento per relationem al
processo verbale di constatazione deve considerasi invalida ai sensi
dell’art. 3 della L. n. 241 del 1990.
Con sentenza 29 maggio-28 giugno 2000 la Commissione tributaria
regionale della Lombardia rigettava l’appello dell’ufficio con la seguente
motivazione:
– doveva ritenersi non consentita l’integrazione, ad opera
dell’accertamento impugnato, di un precedente avviso di accertamento affetto
da nullita’. Il Collegio richiamava, in proposito, il principio affermato da
questa Corte nella sentenza n. 10650 del 1997, secondo la quale non e’
consentita l’integrazione o modificazione, attraverso un successivo atto, di
un precedente accertamento radicalmente nullo. Mentre sarebbe ammessa
soltanto una rimozione del precedente atto attraverso l’emanazione del
secondo, con effetto ex tunc. La disciplina dell’art. 43, comma 3, del
D.P.R. n. 600 del 1973 non era pertanto, nella specie, applicabile;
– nella specie il primo accertamento era stato annullato con sentenza
della Commissione tributaria regionale passata in giudicato sulla dedotta,
illegittima integrazione del primo accertamento. L’accoglimento di tale
censura assorbiva ogni altra questione svolta dalle parti.
Avverso tale sentenza il Ministero dell’economia e delle finanze e
l’Agenzia delle Entrate hanno proposto ricorso per cassazione.
Ha resistito con controricorso S.C., il quale ha, altresi’, proposto
ricorso incidentale condizionato.
2. Il motivo del ricorso principale
Con un unico, articolato motivo i ricorrenti denunciano violazione e
falsa applicazione degli artt. 42 e 43 del D.P.R. n. 600 del 1973 e dei
principi generali in materia di nullita’; 112, 113, 114, 155, 166 del codice
di procedura civile e 36 del D.Lgs. n. 546 del 1992; motivazione omessa,
insufficiente, contraddittoria.
Secondo la difesa dell’Amministrazione, la sentenza richiamata nella
decisione impugnata non avrebbe la portata affermata dalla Commissione
tributaria regionale. Nella sentenza, infatti, viene semplicemente affermato
che, in caso di nullita’ dell’accertamento, l’ufficio ha facolta’ di
emetterne un altro. Sarebbe, invece, da escludere che la nullita’ del primo
accertamento (nel caso di specie, dichiarata per omessa indicazione delle
aliquote) si comunichi al secondo, emesso ai sensi dell’art. 43, comma 3,
del D.P.R. n. 600 del 1973. L’avviso di accertamento integrativo e’,
infatti, atto autonomo e distinto (la norma parla di nuovo avviso), avente
una propria materia e in possesso di tutti i requisiti di cui all’art. 42
del D.P.R. n. 600 del 1973. Non vi sarebbe, pertanto, alcuna ragione di
tutela del contribuente la quale imponga di considerare nullo l’avviso di
accertamento integrativo, sacrificando, cosi’, interessi di rango
costituzionale, quali quello del reperimento delle risorse essenziali al
funzionamento dello Stato e il concorso alle spese pubbliche secondo la
propria capacita’ contributiva, quando, come nella specie, l’atto
integrativo sia in possesso di tutti gli elementi richiesti dall’art. 42.
I giudici di merito non avrebbero, inoltre, considerato che l’avviso di
accertamento integrativo si riferiva a redditi del tutto distinti da quelli
oggetto dell’accertamento originario, e a loro volta oggetto di altri
processi verbali di constatazione.
Infatti, il primo atto si riferiva a un reddito, attribuito a S.C. e
alla moglie, soggetto a tassazione ordinaria, derivante dall’attivita’
svolta da S.C. nelle vicende di “tangentopoli”; il secondo concerneva un
reddito di capitale soggetto a tassazione separata, attribuito al solo S.C.
e derivante da investimenti all’estero.
Il secondo avviso recava tutti gli elementi prescritti, e cioe’
l’imponibile accertato, le aliquote applicate, le imposte liquidate al lordo
e al netto, le norme applicate, i motivi di fatto e di diritto
dell’accertamento, e in particolare i nuovi elementi che l’avevano
consentito. L’atto, infine, era sottoscritto dal funzionario competente ed
era stato notificato nel termine di cui all’art. 43, comma 1, del D.P.R.
n.æ600 del 1973.
3. I motivi del ricorso incidentale
3.1. In via pregiudiziale la difesa di S.C. denuncia il difetto di
legittimazione dei ricorrenti.
Sostiene che, secondo gli artt. 57, 61 e 62, comma 2, del D.Lgs. 30
luglio 1999, n. 300, al Ministero delle finanze (attualmente, dell’economia
e delle finanze) sono subentrate in tutti i rapporti giuridici le Agenzie
fiscali, e precisamente l’ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate.
Pertanto, l’amministrazione centrale dell’Agenzia e il Ministero sono da
considerarsi privi di legittimazione.
Condizionatamente all’accoglimento delle censure proposte col ricorso,
vengono, quindi, svolti i motivi che seguono.
3.2. Col primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 42 del D.P.R. n. 600 del 1973.
Deduce che correttamente i primi giudici avevano ritenuto l’irritualita’
dell’utilizzazione degli elementi acquisiti al procedimento penale per
incompetenza dell’organo giudiziario che aveva rilasciato l’autorizzazione.
Quest’ultima, secondo l’art. 33 del D.P.R. n. 600 del 1973, doveva essere
concessa dall’autorita’ procedente, non esistendo una competenza funzionale
del pubblico ministero. Inoltre, l’autorizzazione era priva di qualsiasi
motivazione.
Ancora, l’appello dell’ufficio non conteneva alcun riferimento al
divieto della prova testimoniale nel processo tributario, contenuto
nell’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992. Nella specie erano state utilizzate
prove testimoniali, e rogatorie internazionali disposte in violazione del
principio di specialita’ a seguito delle riserve espresse da Svizzera e
Lussemburgo.
In proposito il ricorrente deduce:
a) le prove su cui si era basato il procedimento amministrativo erano
pedissequamente tratte dalle rogatorie internazionali del processo E., in
palese violazione della Convenzione di assistenza giudiziaria in materia
penale, secondo cui deve ritenersi esclusa ogni utilizzazione delle
rogatorie e “delle informazioni ivi contenute nell’ambito di una procedura
fiscale a carattere penale o amministrativo”;
b) il processo verbale di constatazione e’ stato integralmente
fondato su tali prove e rogatorie;
c) l’ufficio ha recepito in modo totalmente acritico tali elementi,
senza alcuna autonoma e concreta verifica.
3.3. Col secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 4 e 6 della L. 4 agosto 1990, n. 227.
Lamenta che, legittimando la tassazione presuntiva dei frutti in base
alla semplice detenzione, i giudici di merito abbiano omesso di considerare
che la detenzione dei capitali era iure alieno, e non iure proprio. La
presunzione di fruttuosita’ del danaro non opera quando gli accordi
intercorsi sono tali da destinare i frutti ad un soggetto diverso dal
detentore. Le obiezioni opposte dall’ufficio in punto di prova non hanno
tenuto conto dell’avere (sancito, n.d.r.) la sentenza penale che i fondi e i
relativi frutti erano di pertinenza di R.G. e di partiti politici, e che
S.C. era soltanto un intermediario fiduciario di tali soggetti. S.C. non
aveva alcun obbligo di dare tale precisazione, sia perche’ nemo tenetur se
detegere, sia perche’ la norma richiamata escludeva da tale obbligo i
redditi soggetti a ritenuta alla fonte ex art. 26, comma 3, del D.P.R. n.
600 del 1973.
Quanto alla presunzione di fruttuosita’ la quantificazione fatta dalla
Guardia di finanza non aveva tenuto conto dell’art. 6 della L. n. 227 del
1990, il quale prevede che debba essere preventivamente richiesta al
contribuente la prova contraria. Si sarebbe verificata, quindi, una
decadenza dall’accertamento.
3.4. Col secondo motivo, denunciando violazione dell’art. 41-bis del
D.P.R. n. 600 del 1973, il ricorrente lamenta che l’ufficio abbia continuato
a svolgere accertamenti nel periodo d’imposta, utilizzando il procedimento
ex art. 41-bis. Si tratta di violazione di legge rilevabile in ogni stato e
grado del procedimento.
Secondo il ricorrente difettavano i presupposti per l’accertamento
parziale, che puo’ basarsi soltanto su elementi certi e definitivi, mancando
ancora un’istruttoria interna che individui tutti gli elementi reddituali
del soggetto passivo. Nella specie si trattava, invece, di un processo
verbale di constatazione, nel quale venivano rilevati fatti che dovevano
essere vagliati dall’ufficio, unico legittimato all’accertamento, e che non
potevano dar luogo ad automatismo accertativo. Si tratta di nullita’ di
carattere sostanziale, le quali, pertanto, non possono essere sanate dalla
rituale impugnazione dell’atto da parte del contribuente.
3.5. Nel caso in cui si dovesse condividere la tesi, affermata dalla
giurisprudenza di legittimita’, secondo cui la violazione dell’art. 33,
comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973 non determinerebbe nullita’
dell’accertamento, il ricorrente solleva questione di illegittimita’
costituzionale in relazione agli artt. 3, 24, 97 e 113 della Costituzione e
ai principi di certezza e trasparenza dei rapporti tra Fisco e contribuente,
di affidamento e di motivazione degli atti.
Viene rilevato, in proposito, che il D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ha
confermato la necessita’ della previa autorizzazione dell’Autorita’
giudiziaria per la trasmissione di dati alla sede amministrativa tributaria.
Il principio affermato da questa Corte, secondo cui non esisterebbe un
principio generale di inutilizzabilita’ delle prove assunte contro divieti
legislativi, contrasterebbe con quello enunciato dalla giurisprudenza
costituzionale (sentenza 6 aprile 1973, n. 34), secondo la quale le
attivita’ compiute in dispregio dei diritti fondamentali del cittadino non
possono essere assunte di per se’ a giustificazione e a fondamento di atti
processuali a carico di chi quelle attivita’ costituzionalmente illegittime
abbia subito.
Sempre dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 51 del 18
febbraio 1992) emerge il principio dell’obbligo di motivazione.
Infine, il riconoscimento di una facolta’ insindacabile della Guardia di
finanza di trasmettere agli uffici finanziari dati non conoscibili
dall’imputato e dai terzi costituirebbe una impar condicio tra ufficio e
contribuente, che non ha parita’ di accesso ad atti che lo riguardano, e in
particolare a quelli a lui favorevoli, non ancora accessibili perche’
coperti dal segreto delle indagini.
4. Motivi della decisione
4.1. Preliminarmente deve disporsi la riunione dei ricorsi, in quanto
proposti avverso la stessa sentenza.
Sempre in via preliminare deve essere esaminata la questione di
inammissibilita’ del ricorso principale, per essere stato lo stesso proposto
dall’Amministrazione finanziaria dello Stato quando era gia’ operativa
l’Agenzia delle Entrate, ed essendo attribuita la legittimazione soltanto
all’ufficio periferico di quest’ultima.
La questione e’ infondata. Il Collegio aderisce pienamente ai principi
affermati dalle sentenze delle Sezioni Unite n. 3116 e 3118 del 14 febbraio
2006, secondo le quali, nei processi instaurati prima dell’attribuzione di
operativita’ all’Agenzia (1 gennaio 2001), si verifica una successione a
titolo particolare di tale ente all’Amministrazione finanziaria, regolata
dall’art. 111 del codice di procedura civile, con mantenimento della
qualita’ di parte di quella originaria, salva l’ipotesi di una sua
estromissione, e con formazione di un litisconsorzio processuale nei
confronti dell’Agenzia delle Entrate. Pertanto, essendosi il litisconsorzio
formato successivamente alla sentenza impugnata, la legittimazione era
attribuita al Ministero dell’economia e delle finanze, che non risultava
estromesso. Quanto alla necessaria partecipazione dell’Agenzia, la stessa e’
avvenuta mediante la proposizione del ricorso, oltre che da parte del
Ministero, da parte del rappresentante centrale dell’ente attraverso il
patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. Secondo un principio affermato dalle
citate sentenze delle Sezioni Unite, alle quali il Collegio aderisce, la
legittimazione al ricorso per cassazione deve considerarsi attribuita
all’ente – secondo le regole dettate per le persone giuridiche – sia
attraverso la propria struttura centrale, sia attraverso quella periferica.
4.2. Passando all’esame delle censure svolte dalle Amministrazioni
ricorrenti, le stesse meritano accoglimento.
La sentenza impugnata si fonda, infatti, su un errore di prospettiva,
la’ dove compie un’indebita contaminatio tra i principi che regolano la
correzione di vizi degli atti, nell’ambito del doveroso esercizio del potere
impositivo, e il divieto, posto dall’art. 43, comma 3, del D.P.R. 29
settembre 1973, n. 600, di modificazione o integrazione dell’accertamento
sulla base degli stessi elementi in possesso dell’ufficio.
Nella specie si deve ritenere che l’atto impugnato non costituisca una
mera integrazione di quello precedentemente annullato in via
giurisdizionale, ma esercizio dell’ordinario – e doveroso – potere di
accertamento, in relazione a redditi diversi da quelli precedentemente
accertati, in ottemperanza ad una pronuncia giurisdizionale di annullamento.
Si puo’ ricondurre l’atto impugnato nel presente processo – nella parte
in cui venivano indicate le aliquote applicate – anche al generale potere di
autotutela dell’Amministrazione, pur tenendosi conto del fatto che, nella
specie, l’ufficio non era di fronte alla scelta discrezionale insita in tale
potere, stante il gia’ richiamato dovere di ottemperanza al giudicato di
annullamento, al quale aveva gia’ adempiuto annullando l’accertamento
relativo all’Ilor. Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato
(decisione n. 1233 del 1 ottobre 1999) e’ legittimo l’esercizio del potere
di autotutela anche nei confronti di atti annullati in sede giurisdizionale,
attraverso la modificazione di presupposti di fatto e la rimozione o
integrazione delle parti oggetto della statuizione di illegittimita’.
Nel caso di specie, l’ufficio non si e’ limitato ad integrare le parti
dell’accertamento che davano luogo ad invalidita’, ma ha esercitato, con le
forme e nei termini stabiliti, il proprio potere di accertamento, che non si
era consumato attraverso l’emanazione degli atti annullati, ottemperando
alla pronuncia di annullamento, come aveva gia’ fatto annullando d’ufficio
l’accertamento relativo all’Ilor. Si tratta, come si e’ gia’ precisato, di
un atto doveroso, costituente esercizio del potere impositivo che,
nell’ordinamento fiscale, non puo’ avere carattere discrezionale.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla Commissione tributaria regionale,
non era affatto necessaria l’emanazione di uno specifico atto di
annullamento, oltre tutto inutile, stante l’intervenuta pronuncia
giurisdizionale passata in giudicato e l’intervenuto annullamento
dell’accertamento relativo all’Ilor, in ottemperanza al giudicato.
Trattandosi di originario esercizio del potere di accertamento si deve
considerare del tutto improprio il riferimento all’ipotesi dell’accertamento
integrativo regolato dall’art. 43, comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973, la
quale concerne soltanto i casi in cui i due atti si integrano tra loro,
giungendosi all’aumento del reddito imponibile, e che puo’ avvenire soltanto
sulla base di nuovi elementi, e non su una diversa o piu’ approfondita
valutazione di quelli che erano gia’ in possesso dell’ufficio.
Oltre tutto, nella specie non era controverso il fatto che la conoscenza
delle disponibilita’ all’estero era avvenuta successivamente
all’accertamento annullato.
La sentenza deve, pertanto, essere cassata, con rinvio ad altra Sezione
della Commissione tributaria regionale della Lombardia e con assorbimento
del ricorso incidentale.
I giudici di rinvio dovranno pertanto, considerato l’atto impugnato come
nuovo ed autonomo accertamento, esaminare le questioni svolte nel ricorso
incidentale, verificando preliminarmente se le stesse siano state dedotte
nel ricorso introduttivo e ritualmente riproposte in appello.
Ai giudici di rinvio e’ affidata anche la decisione sulle spese del
presente giudizio di legittimita’.
P.Q.M.
la Corte di Cassazione riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso
principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale; cassa la sentenza
impugnata e rinvia, anche per le spese della presente fase, ad altra Sezione
della Commissione tributaria regionale della Lombardia.
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