Opposizione al disconoscimento dei costi del dominus che ospita collaboratori con partita IVA

L’Agenzia delle Entrate disconosce i costi del titolare dello studio professionale, che sarebbero in parte da attribuire ai collaboratori ed ai praticanti che lavorano per lo studio. Entrambi i collaboratori operavano esclusivamente su pazienti del dominus, con il coordinamento di quest’ultimo, ricevendone un compenso per le prestazioni rese. Nessun rapporto economico intercorreva, invece, tra i collaboratori ed i clienti dello studio.

L’addebito dell’ufficio deriva dalla non corretta applicazione dei principi esposti nella documentazione di prassi[1] ed in una isolata sentenza della Corte di Cassazione[2] evocate nell’avviso di accertamento. Secondo tali pronunce, nel caso in cui più professionisti condividano lo studio, i costi devono essere tra loro ripartiti, non potendo essere sostenuti (e dedotti) da uno solo.

Notificando il provvedimento impugnato, l’ente accertatore dimostra di non comprendere la sostanziale differenza che sussistente tra i rapporti di suddivisione delle spese comuni tra professionisti autonomi ed il contratto con il quale i giovani professionisti sono inseriti negli studi professionali per collaborare nell’attività di questi. La necessaria ripartizione delle spese sostenute cui fanno riferimento i provvedimenti richiamati, sicuramente applicabili al primo contratto, è del tutto estranea al secondo.

  1. Il contratto per la suddivisione delle spese comuni tra professionisti

E’ un accordo tra più professionisti, senza vincoli associativi, che decidono di esercitare la propria attività autonoma utilizzando gli stessi locali, al fine della ripartizione delle spese comuni. I professionisti coinvolti nell’accordo mantengono l’assoluta autonomia professionale, potendo addirittura svolgere professioni diverse, rivolgendosi alla loro personale clientela, nei confronti della quale svolgono prestazioni autonome.

Dal punto di vista civilistico l’accordo configura un contratto di mandato senza rappresentanza, ai sensi dell’articolo 1705 c.c., tra il professionista intestatario delle utenze o del contratto di affitto (mandatario), che sostiene le spese con il proprio nome, e gli altri professionisti (mandanti), che a loro volta si impegnano a rimborsare il costo sostenuto per le prestazioni.

E’ evidente che, nel caso descritto, la causa del contratto è costituita dall’intento di suddividere le spese dell’attività e, per questo motivo, è corretto affermare che il professionista intestatario dei contratti possa dedurre dal suo reddito solo la parte di spese effettivamente rimasta a suo carico in quanto non riaddebitata ai professionisti con i quali condivide i locali. Tradotto in termini di inerenza ai fini fiscali, i costi sostenuti sono riferibili alle singole attività svolte tra i professionisti e potranno essere da loro dedotte solo per la parte rimasta a carico, a seconda del metodo di suddivisione previsto nell’accordo.

  1. La collaborazione dei giovani professionisti negli studi professionali

Tutt’altra disciplina si applica al contratto con il quale un collaboratore si impegna a prestare attività di consulenza in favore del professionista titolare dello studio, ricevendone un compenso.

Dal punto di vista civilistico tale contratto si qualifica come contratto di prestazione d’opera professionale ed è regolato dagli articoli 2230 e seguenti del codice civile. Con il perfezionamento del contratto il collaboratore si impegna esclusivamente a fornire la sua opera intellettuale in cambio di un compenso. Oggetto del contratto è unicamente la prestazione intellettuale, non essendo previsto che il collaboratore disponga di una propria organizzazione di mezzi attraverso la quale fornire le prestazioni.

Il collaboratore, in questi casi, opera esclusivamente sui clienti del professionista titolare, nei confronti del quale egli assume obbligazioni. E’ da escludersi, quindi, che il collaboratore si obblighi nei confronti dei clienti dello studio. In questo modo il collaboratore assume le vesti di fattore produttivo per il conseguimento degli onorari da parte del titolare, al pari dei dipendenti, dell’energia elettrica e degli strumenti utilizzati. E’ per questo motivo che, in questo caso, non ha senso parlare di suddivisione delle spese comuni, poiché il collaboratore non utilizza le dotazioni dello studio per produrre il proprio reddito, essendo esso stesso un fattore produttivo. In termini di inerenza, non è corretto sostenere che i costi del personale di segreteria, per l’energia elettrica e del telefono siano funzionali alla produzione dei compensi del collaboratore, essendo gli stessi riferibili esclusivamente all’attività dello studio nel suo complesso e, pertanto, alle prestazioni fatturate del titolare dello studio.

L’esposta precisazione evidenzia l’irrilevanza dei principi esposti dall’ufficio a supporto dell’ipotesi accertativa. Se, infatti, le disposizioni che hanno ad oggetto le modalità di ripartizione e di detrazione fiscale delle spese comuni ben si attagliano al contratto descritto al punto precedente sub a), è di tutta evidenza che nulla hanno a che fare con il contratto descritto alla lettera b).

Nel caso di collaborazione del giovane professionista nello studio non è applicabile il contenuto della Circolare 38/E/2010, punto 3.4[3], che descrive il trattamento fiscale del delle “somme incassate per il riaddebito dei costi ad altri professionisti per l’uso comune degli uffici”. Parimenti infondato è il riferimento alla Circolare 58/E/2001[4], che, infatti, tratta di tema di “Quando più professionisti, senza vincoli associativi, dividono lo stesso studio, si pone il problema della ripartizione delle spese comuni (energia elettrica, telefono ecc.). Si tratta, ancora una volta, della disciplina prevista per il contratto enunciato alla lettera a) del punto precedente.

Risulta infine applicabile solo al contratto di suddivisione delle spese comuni il principio enunciato dalla Corte di Cassazione nella sentenza 16035/2015[5] dove, non a caso, si parla di “rimborsi astrattamente spettanti (…) all’intestatario dello studio professionale, condiviso con altri colleghi”.

Il dominus, nell’anno oggetto di accertamento, esercitava la libera professione nel suo studio odontoiatrico. Per lo svolgimento dell’attività egli impiegava diversi fattori produttivi, tra i quali gli studi medici condotti in forza di un contratto di locazione, il personale di segreteria e i collaboratori.

Lo svolgimento della libera professione negli studi è stata autorizzata dal Comune che ha autorizzato personalmente il titolare dello studio.

Il dominus ed i collaboratori sottoscrissero un contratto di collaborazione professionale, con il quale quest’ultimo si impegnava a fornire esclusivamente la sua opera intellettuale (le sue conoscenze scientifiche e le sue abilità tecniche) nei confronti del primo, ricevendone in cambio un compenso.  Gli appuntamenti con i pazienti erano fissati dal personale di segreteria dipendente del dottor Lucati, su indicazione di quest’ultimo.

I collaboratori svolgevano attività esclusivamente nei confronti dei pazienti dello studio, nei confronti del quale emettevano regolare fattura. Tale affermazione è supportata dal fatto che nessuna autorizzazione sanitaria è stata emessa dal Comune nei confronti dei collaboratori per lo svolgimento autonomo della professione odontoiatrica. In altri termini, i collaboratori non potevano esercitare in proprio l’attività sia perché tale possibilità era loro inibita dal contratto che li legava al dominus, sia dalla mancanza delle prescritte autorizzazioni per l’esercizio in proprio dell’attività.

Alla luce di tutto quanto sopra esposto risulta del tutto infondato il provvedimento impugnato, che ha disconosciuto la deducibilità dei costi del titolare dello studio, poiché lo stesso avrebbe operato “senza documentare che la stessa contribuiva al pagamento delle spese comuni dello studio”. L’ufficio ha avuto modo di rilevare, avendo avuto a lungo a disposizione tutta la documentazione contabile, che nessun contributo è stato versato dai collaboratori per le spese comuni dello studio. Del resto, come più volte ribadito, nessun contributo era dovuto in forza della natura del contratto che legava i due professionisti.

La motivazione sulla quale si fonda l’avviso di accertamento in esame, oltre ad essere palesemente infondata per i motivi sopra addotti, trascura i fondamentali principi vigenti in materia di deducibilità fiscale dei costi, ed in particolare il principio di inerenza. L’articolo 109 del Tuir prevede che Le spese e gli altri componenti negativi (…) sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”.

Poiché tutte le prestazioni svolte nello studio sono fatturate nei confronti dei clienti dal titolare dello studio, le spese sostenute per la gestione di tutta l’attività sono deducibili dal contribuente poiché riferite ai compensi dallo stesso percepiti.

E’ pertanto del tutto evidente l’infondatezza, sia in diritto che nei fatti, del rilievo mosso, che pretenderebbe di attribuire ai collaboratori dello studio addirittura il costo del personale di segreteria impegnato nella produzione dei ricavi del dottor Lucati.

[1] Circolari 38/E/2010 e C.M. 58/E/2001.

[2] Corte di Cassazione, sentenza 16035/2015.

[3] Circolare Agenzia delle Entrate 23 giugno 2010, n. 38/E

3.4 Riaddebito di spese ai colleghi per uso comune di locale. 

D: Come registrare il riaddebito di spese a colleghi per l’uso comune degli uffici, considerando che gli studi di settore prevedono che le spese debbano essere considerate al netto dei riaddebiti? Può infatti accadere che il rimborso avvenga nell’anno successivo al pagamento e che ne derivino, quindi, squadrature con gli studi di settore.

R: Il reddito di lavoro autonomo è determinato dalla differenza tra i compensi percepiti e le spese sostenute. Ai fini reddituali le somme incassate per il riaddebito dei costi ad altri professionisti per l’uso comune degli uffici non costituisce reddito di lavoro autonomo e quindi non rileva quale componente positivo di reddito. E’ corretto ritenere che il costo sostenuto può essere dedotto dal professionista solo parzialmente, vale a dire per la parte riferibile alla attività da lui svolta e non anche per la parte riaddebitata o da riaddebitare ad altri. Infatti la parte di costo riaddebitata o da riaddebitare non è inerente alla attività da questi svolta e quindi non assume rilevanza reddituale quale componente negativo. Nella imputazione delle componenti reddituali al periodo d’imposta il reddito di lavoro autonomo segue il criterio di cassa, principio che può essere derogato solo nelle ipotesi previste. Pertanto il costo rimborsato al professionista dal collega per l’uso comune del locale di esercizio dell’attività nel periodo d’imposta successivo non può considerarsi rilevante ai fini reddituali per il professionista che lo riceve. Detto componente sarà invece rilevante per il professionista (collega), nel periodo d’imposta in cui effettivamente lo corrisponde per l’uso dei locali”.

[4] Circolare Agenzia delle Entrate 18 giugno 2001, n. 58 /E

“Ripartizione delle spese comuni tra professionisti

  1. Quando più professionisti, senza vincoli associativi, dividono lo stesso studio, si pone il problema della ripartizione delle spese comuni (energia elettrica, telefono ecc.). Generalmente accade che uno di essi è intestatario delle forniture dei servizi comuni e lo stesso provvede a ripartire le spese pro quota tra gli altri professionisti. Qual è il trattamento fiscale ai fini delle imposte dirette e indirette di tali rimborsi spese? Tale rimborso va assoggettato all’IVA e considerato un provento diverso ai fini IRPEF, come sostiene la dottrina prevalente, ovvero non sconta né l’IVA né l’IRPEF, in quanto non rappresenta né una cessione di beni né una prestazione di servizi e quindi è da dedurre dalle spese generali del professionista intestatario delle forniture (diminuzione di costi), come sostenuto dalla Libera associazione dottori commercialisti (Ladc) con la norma di comportamento n. 93?
  2. Il riaddebito, da parte di un professionista, delle spese comuni dello studio utilizzato da più professionisti non costituiti in associazione professionale, da lui sostenute, deve essere realizzato attraverso l’emissione di fattura assoggettata ad IVA. Ai fini reddituali, le somme rimborsate dagli altri utilizzatori comportano una riclassificazione in diminuzione del costo sostenuto dal professionista intestatario dell’utenza”.

 

[5] Corte di Cassazione, sentenza 29 luglio 2015, n. 16035: “6.2. I documenti di prassi, cosi come più recentemente chiariti, prospettano una tesi ampiamente condivisibile. Infatti, i rimborsi astrattamente spettanti non costituiscono per l’intestatario dello studio professionale, condiviso con altri colleghi, componenti positivi di reddito bensì minori costi di gestione. Tale impostazione, dunque, fa si che si debba realizzare una esposizione sostanziale delle spese effettivamente sostenute se e in quanto inerenti all’attività di lavoro autonomo realmente svolta da ciascuno, altrimenti risolvendosi l’imputazione integrale dei costi a uno solo dei professionisti condividenti in una sorte di liberalità indiretta, pacificamente non deducibile”.

[6] Art.5 “Il Committente indicherà al Professionista i nominativi dei pazienti sui quali effettuare la prestazione professionale di igiene dentale, fornendo preventivamente i dati di anamnesi indispensabili per una corretta e responsabile esecuzione professionale e fornendo, altresì, sempre preventivamente, l’indicazione prevista dal D.M. n. 137/99”.

Professionisti: l’impiego di collaboratori e tirocinanti compromette la deducibilità dei costi di studio?

Si segnala che sempre più frequentemente l’Agenzia delle Entrate contesta la deducibilità dei costi dello studio ai professionisti che operano con l’ausilio di collaboratori con partita IVA. L’Agenzia fiscale sostiene, infatti, che i costi dello studio debbano essere suddivisi tra tutti i professionisti, anche quelli (praticanti, collaboratori) che emettono fatture esclusivamente nei confronti del titolare dello studio. La posizione dell’ente accertatore trae spunto da un’isolata sentenza della Corte di Cassazione (29 luglio 2015,  sentenza n. 16035) con la quale veniva disconosciuta l’integrale deducibilità dei costi di studio ad un avvocato che operava coadiuvato da due “giovani collaboratori tirocinanti” . La Suprema Corte non solo rigettava la richiesta di integrale deducibilità dei costi da parte del titolare dello studio, ma anche la richiesta subordinata di ripartizione degli stessi in base al fatturato di ciascun professionista. Al titolare dello studio, pertanto, è stata consentita la deducibilità solo di un terzo dei costi di studio.

Ritenendo particolarmente rilevante la questione, sinora rimasta sottotraccia, stante la diffusione dei contratti di collaborazione negli studi professionali, ritengo utile condividere le memorie predisposte per l’accertamento con adesione proposto da un odontoiatra colpito da un avviso di accertamento del tipo descritto.

Scarica il fle:

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Il limite di 5.000 Euro annui costituisce la discriminante tra lavoro occasionale ed abituale?

Torno sulla vexata quaestio delle prestazioni occasionali, sollecitato dalla richiesta di un iscritto all’Ordine Ingegneri che, riferendosi ad un pregevole parere espresso da una mia collega, ritiene tuttora sussistente “il limite dei 5.000,00 Euro” e, all’esito di un mio contrastante parere, chiede conto di quale sia la normativa che avrebbe eliminato tale soglia.

Per dare una risposta corretta credo sia opportuno chiarire quale sia la domanda posta. Molto probabilmente la collega ha risposto ad un quesito in merito a quale fosse la soglia di esenzione ai fini contributivi per i lavoratori autonomi occasionali. Ed in effetti il parere, che riporta de plano la pagina del sito Inps, afferma correttamente che i lavoratori autonomi occasionali, a decorrere dal 1° gennaio 2004, sono soggetti ad iscrizione ed agli obblighi contributivi, ma solo per la parte del loro reddito che eccede i 5.000 Euro nell’anno solare.

Le regole riportate nel parere riguardano esclusivamente il trattamento contributivo dei redditi di lavoro autonomo occasionale, ma nulla hanno a che vedere con la qualificazione della natura occasionale di un reddito.

Se, infatti, ci si pone un quesito sulle caratteristiche che deve avere un reddito di lavoro autonomo per essere definito occasionale, la questione cambia sostanzialmente. Il fraintendimento nasce probabilmente dal fatto che, a mio modo impropriamente, fino al 31.12.2015, ai fini della qualificazione dell’occasionalità del lavoro autonomo, usava farsi riferimento all’articolo 61, comma 2, del D. Lgs 276/2003, che riteneva non applicabile la disciplina delle collaborazioni coordinate continuative “alle prestazioni occasionali, intendendosi per tali i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro”. Si ritenne così codificato il limite di 5.000,00 Euro quale soglia entro la quale il reddito dovesse ritenersi occasionale, mentre era considerato abituale una collaborazione che superasse tale limite.

A mio parere tale riferimento, che pure aveva un certo valore in termini di buon senso, non è mai stato vincolante. Anzitutto perché il limite era fissato per le collaborazioni occasionali, caratterizzate dal collegamento funzionale tra il prestatore e la struttura (caso tipico il praticante di studio), ma non valeva per le prestazioni occasionali, ossia per quei lavori saltuari che un soggetto svolge autonomamente. E’ stato altresì autorevolmente affermato (Documento 31/2015 del Centro Studi del Consiglio Nazionale ingegneri “Chiarimenti sulle prestazioni occasionali degli iscritti all’Albo”) che le disposizioni sopra esposte non fossero applicabili per le professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione negli appositi albi professionali, in forza dell’espressa esclusione prevista dal comma 3 dell’articolo 61 della norma citata.

A maggior ragione tale riferimento non è applicabile oggi, poiché l’articolo 2 del Dlgs 81/2015  (“jobs act”) ha disposto che “dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”, abrogando di fatto le norme sulla collaborazione a progetto.

Resto comunque convinto che il limite di cui sopra non abbia mai costituito un parametro per discriminare tra lavoro occasionale e abituale: lo testimonia la stessa pagina dell’Inps riportata nel parere della collega la quale, nel prevedere l’assoggettamento a contribuzione delle prestazioni di lavoro autonomo occasionale eccedenti i 5.000,00 Euro, di fatto ammette che un reddito possa essere ritenuto occasionale pur eccedendo tale il limite.

La qualificazione dell’occasionalità o dell’abitualità deve quindi essere fatta tornare nel suo alveo naturale, che è il Dpr 633/72 in materia di Iva. Se, infatti, si discute sul tema è perché l’articolo 5 della suddetta norma definisce l’esercizio di arti e professioni “l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività di lavoro autonomo da parte di persone fisiche (…)”. E’ l’abitualità (e non l’esclusività), quindi, a costituire il discrimine tra soggetti obbligati all’apertura della partita Iva e lavoratori autonomi occasionali.

Liberati (o orfani) di qualsiasi riferimento quantitativo, la qualifica va fatta secondo un criterio descrittivo. A tal fine ritengo esauriente la definizione fornita dal Centro Studi del Consiglio Nazionale Ingegneri nel citato documento 31/2015, che gli obblighi di possedere la partita Iva “vengono meno solo nel caso in cui gli iscritti ad un Albo professionale non svolgano lavoro autonomo in modo abituale, regolare, sistematico e ripetitivo e che, nello stesso tempo, intendano svolgere una prestazione occasionale, ovvero una prestazione non ripetitiva, svolta una volta ogni tanto, senza vincolo di subordinazione con il committente e caratterizzata anche dall’elemento dell’episodicità”.

Per quanto sopra esposto credo dovrebbe chiarirsi con l’ingegnere quale fosse il suo quesito: se fosse indirizzato a conoscere il limite per l’esenzione dalla contribuzione Inps è corretto il riferimento ai 5.000 Euro, mentre se volesse sapere entro che limite un reddito può definirsi occasionale devo purtroppo riferire che non esistono limiti certi, ma che si dovrà riferirsi ai criteri descrittivi sopra riportato.

Concludo con la considerazione che la ricerca del limite dell’occasionalità è oggi un falso problema, poiché nella maggioranza dei casi, con l’introduzione del regime forfettario, la tassazione è più moderata con il possesso della partita Iva rispetto alla prestazione occasionale. Nel dubbio, quindi, l’opzione per il regime forfettario diventa una scelta virtuosa.

Paolo Dalle Carbonare, 29 novembre 2016

Prestazioni occasionali

Quesito
Buongiorno egregio Dottore,
Volevo chiederLe un’informazione.
Ho svolto una prestazione occasionale da libero professionista (sono iscritto all’ordine degli Ingegneri di Xxxxxx) per un importo poco inferiore a 5000 euro.
Volevo sapere se, dato il fatto che questa prestazione è secondaria rispetto al mio reddito principale, e che la collaborazione è meramente occasionale, devo rilasciare ricevuta con ritenuta d’acconto pari al 20% oppure se sono esente dalla ritenuta d’acconto.
Attendendo Vs. cortese riscontro, Le porgo i più distinti saluti.

 

Risposta
Il quesito non indica quale sia la sua occupazione. Ritengo comunque che la sua attività principale sia svolta in forma di dipendente.
Purtroppo la normativa vigente non indica dei parametri certi per discriminare tra prestazione occasionale ed attività abituale di lavoro autonomo. La soglia dei 5.000 euro alla quale lei fa riferimento serve (unitamente alla durata inferiore ai 30 giorni) ad identificare le collaborazioni occasionali (nelle quali il prestatore stabilisce una connessione organica con il committente) e non le prestazioni occasionali.
Se comunque, come appare dal tenore del quesito, la prestazione resa è veramente occasionale, il compenso sarà assoggettato a ritenuta d’acconto del 20%, salvo il caso di prestazione effettuata nei confronti di committente privato (non avente partita IVA).
Il reddito percepito dovrà essere indicato nel quadro RL del Modello Unico.
A disposizione per ulteriori puntualizzazioni, porgo distinti saluti.
Paolo Dalle Carbonare

Giovane architetto e fisco

Conseguita la laurea, superato l’esame di stato ed ottenuta l’iscrizione
all’Ordine, il giovane architetto si trova alle prese con la scelta
dell’inquadramento fiscale da assumere nei primi anni di svolgimento
dell’attività professionale.
Le domande più frequenti che il giovane professionista fa al consulente
fiscale riguardano la qualificazione dell’attività svolta come occasionale o
professionale e la possibilità di essere inquadrati con rapporti di lavoro a
progetto e/o collaborazione coordinata continuativa.

041124 Il giovane architetto e il fisco

Alternative inquadramento collaboratori

Sono interessato ad inserire nel mio studio un giovane collaboratore (studente o
neolaureato). Desidero conoscere quali sono le possibili soluzioni contrattuali (alternative al
lavoro dipendente) ed i relativi costi per lo studio.

Inquadramento collaboratori

Forme di inquadramento giovani professionisti

Forme di inquadramento giovani professionisti

Sono un giovane ingegnere che intende intraprendere l’attività di libero professionista.
Desidero conoscere quali sono i possibili inquadramenti fiscali e quale il più conveniente.

La scelta del regime fiscale più conveniente per un giovane professionista è funzione di
numerose variabili quali, ad esempio, il volume dei ricavi che si prevede di percepire, le spese
inerenti l’attività che si ritiene di dover sostenere, oltre all’esistenza di altri reddito o la presenza
di oneri deducibili o detraibili.
Per rispondere in modo specifico al quesito dell’iscritto sarebbe necessario conoscere la sua
posizione personale: ritengo tuttavia di poter fornire utili informazioni in merito alle possibilità
offerte dal fisco e delle indicazioni in merito alla loro applicabilità in alcuni casi tipo.
Le principali novità offerte dalla normativa vigente per un professionista che si appresti a
collaborare con un studio o intenda intraprendere l’attività libero-professionale vera e propria
sono:
− Collaborazione occasionale;
− Prestazione di lavoro autonomo occasionale;
− Contratto di lavoro a progetto;
− Apertura di partita IVA per lo svolgimento di lavoro autonomo

Remunerazione delle collaborazioni

Treviso, 7 maggio 2003

Oggetto: quesito su remunerazione delle collaborazioni.

Il Vostro iscritto chiede “se codesto Ordine consiglia modalità di retribuzione
propriamente specifiche per i rapporti di collaborazione coordinata continuativa,
diversamente da quella in funzione del tempo impiegato per svolgere la collaborazione
(oraria)”.
A tal proposito giova ricordare che le caratteristiche che devono coesistere
affinché un contratto possa essere qualificato come collaborazione coordinata
continuativa sono:
1. Contenuto intrinsecamente artistico o professionale
2. Mancanza di vincoli di subordinazione rispetto al committente
3. Le prestazioni devono essere svolte nell’ambito di un rapporto unitario e continuativo
4. Mancanza di mezzi organizzati per lo svolgimento
5. La retribuzione deve essere periodica e prestabilita
6. Non devono rientrare nell’ambito della professione abituale
Per quanto sopra esposto, in particolare al punto 5, ritengo che una retribuzione
oraria, e quindi non periodica e prestabilita, sia estranea al contratto di collaborazione
coordinata continuativa. Al fine di evitare spiacevoli e gravose contestazioni da parte
dell’INPS consiglio pertanto di rispettare i sei requisiti sopra riportati.
Cordiali saluti.
Paolo Dalle Carbonare