Opposizione al disconoscimento dei costi del dominus che ospita collaboratori con partita IVA
L’Agenzia delle Entrate disconosce i costi del titolare dello studio professionale, che sarebbero in parte da attribuire ai collaboratori ed ai praticanti che lavorano per lo studio. Entrambi i collaboratori operavano esclusivamente su pazienti del dominus, con il coordinamento di quest’ultimo, ricevendone un compenso per le prestazioni rese. Nessun rapporto economico intercorreva, invece, tra i collaboratori ed i clienti dello studio.
L’addebito dell’ufficio deriva dalla non corretta applicazione dei principi esposti nella documentazione di prassi[1] ed in una isolata sentenza della Corte di Cassazione[2] evocate nell’avviso di accertamento. Secondo tali pronunce, nel caso in cui più professionisti condividano lo studio, i costi devono essere tra loro ripartiti, non potendo essere sostenuti (e dedotti) da uno solo.
Notificando il provvedimento impugnato, l’ente accertatore dimostra di non comprendere la sostanziale differenza che sussistente tra i rapporti di suddivisione delle spese comuni tra professionisti autonomi ed il contratto con il quale i giovani professionisti sono inseriti negli studi professionali per collaborare nell’attività di questi. La necessaria ripartizione delle spese sostenute cui fanno riferimento i provvedimenti richiamati, sicuramente applicabili al primo contratto, è del tutto estranea al secondo.
- Il contratto per la suddivisione delle spese comuni tra professionisti
E’ un accordo tra più professionisti, senza vincoli associativi, che decidono di esercitare la propria attività autonoma utilizzando gli stessi locali, al fine della ripartizione delle spese comuni. I professionisti coinvolti nell’accordo mantengono l’assoluta autonomia professionale, potendo addirittura svolgere professioni diverse, rivolgendosi alla loro personale clientela, nei confronti della quale svolgono prestazioni autonome.
Dal punto di vista civilistico l’accordo configura un contratto di mandato senza rappresentanza, ai sensi dell’articolo 1705 c.c., tra il professionista intestatario delle utenze o del contratto di affitto (mandatario), che sostiene le spese con il proprio nome, e gli altri professionisti (mandanti), che a loro volta si impegnano a rimborsare il costo sostenuto per le prestazioni.
E’ evidente che, nel caso descritto, la causa del contratto è costituita dall’intento di suddividere le spese dell’attività e, per questo motivo, è corretto affermare che il professionista intestatario dei contratti possa dedurre dal suo reddito solo la parte di spese effettivamente rimasta a suo carico in quanto non riaddebitata ai professionisti con i quali condivide i locali. Tradotto in termini di inerenza ai fini fiscali, i costi sostenuti sono riferibili alle singole attività svolte tra i professionisti e potranno essere da loro dedotte solo per la parte rimasta a carico, a seconda del metodo di suddivisione previsto nell’accordo.
- La collaborazione dei giovani professionisti negli studi professionali
Tutt’altra disciplina si applica al contratto con il quale un collaboratore si impegna a prestare attività di consulenza in favore del professionista titolare dello studio, ricevendone un compenso.
Dal punto di vista civilistico tale contratto si qualifica come contratto di prestazione d’opera professionale ed è regolato dagli articoli 2230 e seguenti del codice civile. Con il perfezionamento del contratto il collaboratore si impegna esclusivamente a fornire la sua opera intellettuale in cambio di un compenso. Oggetto del contratto è unicamente la prestazione intellettuale, non essendo previsto che il collaboratore disponga di una propria organizzazione di mezzi attraverso la quale fornire le prestazioni.
Il collaboratore, in questi casi, opera esclusivamente sui clienti del professionista titolare, nei confronti del quale egli assume obbligazioni. E’ da escludersi, quindi, che il collaboratore si obblighi nei confronti dei clienti dello studio. In questo modo il collaboratore assume le vesti di fattore produttivo per il conseguimento degli onorari da parte del titolare, al pari dei dipendenti, dell’energia elettrica e degli strumenti utilizzati. E’ per questo motivo che, in questo caso, non ha senso parlare di suddivisione delle spese comuni, poiché il collaboratore non utilizza le dotazioni dello studio per produrre il proprio reddito, essendo esso stesso un fattore produttivo. In termini di inerenza, non è corretto sostenere che i costi del personale di segreteria, per l’energia elettrica e del telefono siano funzionali alla produzione dei compensi del collaboratore, essendo gli stessi riferibili esclusivamente all’attività dello studio nel suo complesso e, pertanto, alle prestazioni fatturate del titolare dello studio.
L’esposta precisazione evidenzia l’irrilevanza dei principi esposti dall’ufficio a supporto dell’ipotesi accertativa. Se, infatti, le disposizioni che hanno ad oggetto le modalità di ripartizione e di detrazione fiscale delle spese comuni ben si attagliano al contratto descritto al punto precedente sub a), è di tutta evidenza che nulla hanno a che fare con il contratto descritto alla lettera b).
Nel caso di collaborazione del giovane professionista nello studio non è applicabile il contenuto della Circolare 38/E/2010, punto 3.4[3], che descrive il trattamento fiscale del delle “somme incassate per il riaddebito dei costi ad altri professionisti per l’uso comune degli uffici”. Parimenti infondato è il riferimento alla Circolare 58/E/2001[4], che, infatti, tratta di tema di “Quando più professionisti, senza vincoli associativi, dividono lo stesso studio, si pone il problema della ripartizione delle spese comuni (energia elettrica, telefono ecc.). Si tratta, ancora una volta, della disciplina prevista per il contratto enunciato alla lettera a) del punto precedente.
Risulta infine applicabile solo al contratto di suddivisione delle spese comuni il principio enunciato dalla Corte di Cassazione nella sentenza 16035/2015[5] dove, non a caso, si parla di “rimborsi astrattamente spettanti (…) all’intestatario dello studio professionale, condiviso con altri colleghi”.
Il dominus, nell’anno oggetto di accertamento, esercitava la libera professione nel suo studio odontoiatrico. Per lo svolgimento dell’attività egli impiegava diversi fattori produttivi, tra i quali gli studi medici condotti in forza di un contratto di locazione, il personale di segreteria e i collaboratori.
Lo svolgimento della libera professione negli studi è stata autorizzata dal Comune che ha autorizzato personalmente il titolare dello studio.
Il dominus ed i collaboratori sottoscrissero un contratto di collaborazione professionale, con il quale quest’ultimo si impegnava a fornire esclusivamente la sua opera intellettuale (le sue conoscenze scientifiche e le sue abilità tecniche) nei confronti del primo, ricevendone in cambio un compenso. Gli appuntamenti con i pazienti erano fissati dal personale di segreteria dipendente del dottor Lucati, su indicazione di quest’ultimo.
I collaboratori svolgevano attività esclusivamente nei confronti dei pazienti dello studio, nei confronti del quale emettevano regolare fattura. Tale affermazione è supportata dal fatto che nessuna autorizzazione sanitaria è stata emessa dal Comune nei confronti dei collaboratori per lo svolgimento autonomo della professione odontoiatrica. In altri termini, i collaboratori non potevano esercitare in proprio l’attività sia perché tale possibilità era loro inibita dal contratto che li legava al dominus, sia dalla mancanza delle prescritte autorizzazioni per l’esercizio in proprio dell’attività.
Alla luce di tutto quanto sopra esposto risulta del tutto infondato il provvedimento impugnato, che ha disconosciuto la deducibilità dei costi del titolare dello studio, poiché lo stesso avrebbe operato “senza documentare che la stessa contribuiva al pagamento delle spese comuni dello studio”. L’ufficio ha avuto modo di rilevare, avendo avuto a lungo a disposizione tutta la documentazione contabile, che nessun contributo è stato versato dai collaboratori per le spese comuni dello studio. Del resto, come più volte ribadito, nessun contributo era dovuto in forza della natura del contratto che legava i due professionisti.
La motivazione sulla quale si fonda l’avviso di accertamento in esame, oltre ad essere palesemente infondata per i motivi sopra addotti, trascura i fondamentali principi vigenti in materia di deducibilità fiscale dei costi, ed in particolare il principio di inerenza. L’articolo 109 del Tuir prevede che “Le spese e gli altri componenti negativi (…) sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”.
Poiché tutte le prestazioni svolte nello studio sono fatturate nei confronti dei clienti dal titolare dello studio, le spese sostenute per la gestione di tutta l’attività sono deducibili dal contribuente poiché riferite ai compensi dallo stesso percepiti.
E’ pertanto del tutto evidente l’infondatezza, sia in diritto che nei fatti, del rilievo mosso, che pretenderebbe di attribuire ai collaboratori dello studio addirittura il costo del personale di segreteria impegnato nella produzione dei ricavi del dottor Lucati.
[1] Circolari 38/E/2010 e C.M. 58/E/2001.
[2] Corte di Cassazione, sentenza 16035/2015.
[3] Circolare Agenzia delle Entrate 23 giugno 2010, n. 38/E
“3.4 Riaddebito di spese ai colleghi per uso comune di locale.
D: Come registrare il riaddebito di spese a colleghi per l’uso comune degli uffici, considerando che gli studi di settore prevedono che le spese debbano essere considerate al netto dei riaddebiti? Può infatti accadere che il rimborso avvenga nell’anno successivo al pagamento e che ne derivino, quindi, squadrature con gli studi di settore.
R: Il reddito di lavoro autonomo è determinato dalla differenza tra i compensi percepiti e le spese sostenute. Ai fini reddituali le somme incassate per il riaddebito dei costi ad altri professionisti per l’uso comune degli uffici non costituisce reddito di lavoro autonomo e quindi non rileva quale componente positivo di reddito. E’ corretto ritenere che il costo sostenuto può essere dedotto dal professionista solo parzialmente, vale a dire per la parte riferibile alla attività da lui svolta e non anche per la parte riaddebitata o da riaddebitare ad altri. Infatti la parte di costo riaddebitata o da riaddebitare non è inerente alla attività da questi svolta e quindi non assume rilevanza reddituale quale componente negativo. Nella imputazione delle componenti reddituali al periodo d’imposta il reddito di lavoro autonomo segue il criterio di cassa, principio che può essere derogato solo nelle ipotesi previste. Pertanto il costo rimborsato al professionista dal collega per l’uso comune del locale di esercizio dell’attività nel periodo d’imposta successivo non può considerarsi rilevante ai fini reddituali per il professionista che lo riceve. Detto componente sarà invece rilevante per il professionista (collega), nel periodo d’imposta in cui effettivamente lo corrisponde per l’uso dei locali”.
[4] Circolare Agenzia delle Entrate 18 giugno 2001, n. 58 /E
“Ripartizione delle spese comuni tra professionisti
- Quando più professionisti, senza vincoli associativi, dividono lo stesso studio, si pone il problema della ripartizione delle spese comuni (energia elettrica, telefono ecc.). Generalmente accade che uno di essi è intestatario delle forniture dei servizi comuni e lo stesso provvede a ripartire le spese pro quota tra gli altri professionisti. Qual è il trattamento fiscale ai fini delle imposte dirette e indirette di tali rimborsi spese? Tale rimborso va assoggettato all’IVA e considerato un provento diverso ai fini IRPEF, come sostiene la dottrina prevalente, ovvero non sconta né l’IVA né l’IRPEF, in quanto non rappresenta né una cessione di beni né una prestazione di servizi e quindi è da dedurre dalle spese generali del professionista intestatario delle forniture (diminuzione di costi), come sostenuto dalla Libera associazione dottori commercialisti (Ladc) con la norma di comportamento n. 93?
- Il riaddebito, da parte di un professionista, delle spese comuni dello studio utilizzato da più professionisti non costituiti in associazione professionale, da lui sostenute, deve essere realizzato attraverso l’emissione di fattura assoggettata ad IVA. Ai fini reddituali, le somme rimborsate dagli altri utilizzatori comportano una riclassificazione in diminuzione del costo sostenuto dal professionista intestatario dell’utenza”.
[5] Corte di Cassazione, sentenza 29 luglio 2015, n. 16035: “6.2. I documenti di prassi, cosi come più recentemente chiariti, prospettano una tesi ampiamente condivisibile. Infatti, i rimborsi astrattamente spettanti non costituiscono per l’intestatario dello studio professionale, condiviso con altri colleghi, componenti positivi di reddito bensì minori costi di gestione. Tale impostazione, dunque, fa si che si debba realizzare una esposizione sostanziale delle spese effettivamente sostenute se e in quanto inerenti all’attività di lavoro autonomo realmente svolta da ciascuno, altrimenti risolvendosi l’imputazione integrale dei costi a uno solo dei professionisti condividenti in una sorte di liberalità indiretta, pacificamente non deducibile”.
[6] Art.5 “Il Committente indicherà al Professionista i nominativi dei pazienti sui quali effettuare la prestazione professionale di igiene dentale, fornendo preventivamente i dati di anamnesi indispensabili per una corretta e responsabile esecuzione professionale e fornendo, altresì, sempre preventivamente, l’indicazione prevista dal D.M. n. 137/99”.