Come si verifica la tempestiva formazione nel 2020 dell’atto notificato nel 2021 ex Dl 34/2020?

Il comma 1 dell’articolo 157 del D.L. n. 34/2020 (c.d. Decreto rilancio”) ha previsto che gli atti per quali i termini di decadenza scadevano tra l’8 marzo 2020 e il 31 dicembre 2020, devono essere emessi entro il 31 dicembre 2020 e notificati nel periodo compreso tra il 1° marzo 2021 e il 28 febbraio 2022, salvi casi di indifferibilità e urgenza.

In assenza di una data o marca temporale nell’atto notificato, com’è verificabile la tempestiva formazione dell’atto?

Si ritiene posa essere condivisibile che l’avviso di accertamento venga ad esistenza con la sua sottoscrizione da parte di soggetto dotato dei prescritti poteri, prima della quale è tanquam non esset.

La data di formazione dell’atto coincide, quindi, con quella della firma apposta sul file notificato in formato digitale al contribuente.

Si ritiene che, in presenza di firma digitale apposta oltre il 31.12.2020, l’atto debba ritenersi formato oltre il periodo di decadenza e pertanto radicalmente invalido

 

E’ nullo l’avviso di accertamento privo delle aliquote d’imposta applicate

A seguito del ricorso presentato dallo Studio, l’Agenzia delle Entrate ha annullato in autotutela l’avviso di accertamento impugnato, poiché “viziato da nullità per violazione dell’articolo 42, DPR 600/73, in quanto privo del prospetto di calcolo delle maggiori imposte e delle aliquote applicate”.

Il testo del provvedimento:

nullo-lavviso-privo-di-aliquote

Illegittimo per contraddittorietà della motivazione il provvedimento che non indica puntualmente il tipo di accertamento

Accade sempre più spesso che gli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate riportino riferimenti plurimi alle norme in tema di accertamento. Così può accadere che il contribuente riceva un avviso di accertamento emesso “ai sensi degli (articoli) 39 comma 2, 41 bis del D.P.R. 600/1973 e dell’art. 54 del D.P.R. 633/1972”.

L’articolo 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, l’articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e, più in particolare in merito al contenuto dell’avviso di accertamento, l’articolo 42 del D.P.R. 29 settembre, n. 600, prevedono che gli atti dell’Amministrazione finanziaria siano motivati e debbano recare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che determinano la decisione dell’amministrazione.

La funzione della motivazione risponde al principio di buona amministrazione, ovvero all’esigenza che l’azione amministrativa sia esplicata in modo appropriato in vista del perseguimento dell’interesse presidiato dalla legge. La giurisprudenza della Suprema Corte (sentenza 17 ottobre 2014, n. 22003) ha ben spiegato che la motivazione chiarisce “il nesso corrente tra la norma tributaria e l’obbligazione affermata esistente nella situazione concreta, onde circoscrivere la materia del contendere”, precisando che la stessa costituisce lo strumento essenziale di garanzia del diritto di difesa del contribuente, che deve essere posto nelle condizioni di conoscere la pretesa tributaria e le norme in base alle quali la stessa è stata determinata. In merito alla scelta del tipo di accertamento attraverso il quale esercitare il potere impositivo e sanzionatorio, in particolare,  l’Amministrazione non è libera, ma vincolata all’esistenza di precise situazioni di fatto. Il contribuente, pertanto, deve essere posto in grado di conoscere il tipo di accertamento che l’Agenzia delle Entrate ha inteso effettuare nei suoi confronti e le norme che lo prevedono e disciplinano.

E’ sempre meno raro che l’accertamento sia effettuato “ai sensi degli (articoli) 39 comma 2, 41 bis  del D.P.R. 600/1973 e dell’art. 54 del D.P.R. 633/1972”. Questo tipo di dichiarazione è, quantomeno, disorientante per il contribuente, posto che le norme richiamate fanno riferimento a tre tipi di accertamento aventi presupposti e modalità di esecuzione assolutamente contrastanti.

L’articolo 39, comma 2, del D.P.R. 600/1973 regola l’accertamento induttivo, che consente, a determinate condizioni, di accertare il contribuente prescindendo dalle risultanze delle scritture contabili, avvalendosi di presunzioni “semplicissime”, ovvero prive dei requisiti di gravità precisione e concordanza. L’accesso all’accertamento induttivo è consentito solo a condizione di gravi irregolarità contabili che non consentano di determinare il reddito in modo analitico.

Diversi sono i presupposti che permettono di procedere con l’accertamento regolato dall’articolo 41 bis del D.P.R. 600/73, che autorizza i verificatori ad accertare il contribuente, seppur in forma parziale, quando siano in possesso di prove certe che consentano di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato. L’accertamento parziale, quindi, non può essere supportato da presunzioni, ma da elementi certi in possesso dell’amministrazione.

In materia di IVA, poi, l’articolo 54 del D.P.R. 633/72 prevede la rettifica delle dichiarazioni sulla base di dati certi o, al più, sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti. E’ escluso che l’articolo possa riguardare accertamenti induttivi fondati su presunzioni semplicissime, poiché tale fattispecie è regolata dal successivo articolo 55 rubricato, appunto “Accertamento induttivo”.

Non è chiaro, in questi casi, quale sia il tipo giuridico sul quale è stato costruito l’avviso di accertamento impugnato. Parrebbe di capire che, sulla base dei medesimi fatti, l’Agenzia delle Entrate effettui un accertamento induttivo ai fini delle imposte dirette e un accertamento analitico ai fini IVA.

Il diritto di difesa del contribuente ne risulta assolutamente confiscato e, pertanto, l’accertamento deve ritenersi illegittimo per contraddittorietà della motivazione, poiché non pone il contribuente nelle condizioni di poter sindacare sui presupposti che consentono l’uno o l’altro tipo di accertamento.

 

Registro, il nuovo avviso di liquidazione in rettifica annulla il precedente

Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 12 maggio 2010, n. 11460
Rilevato in fatto
L’Ufficio Tributi del Comune di Verona notificava, alla societa’ Riva Acciaio S.p.A., proprietaria di aree edificabili identificate nel P.R.G. in zona 18 (zona industriale), tre distinti avvisi di accertamento I.C.I. per gli anni 1998, 1999 e 2000 relativi ad altre aree, coltivate a vigneto e denunciate come aree agricole ai sensi del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11.
La societa’ impugnava innanzi alla C.T.P. di quella citta’ detti atti, chiedendone l’annullamento in quanto non suscettibili di edificazione stante il vincolo paesaggistico ed idrogeologico. La relativa udienza veniva fissata e, nelle more, in data 11.8.2003, il Comune depositava memoria con la quale produceva altri tre motivi di accertamento in rettifica dei primi, non notificati alla controparte, chiedendo la conferma della pretesa impositiva nei limiti dei nuovi accertamenti rettificati, nei quali l’indice di edificabilita’ veniva portato da 0,80 a 0,40 ed il valore de terreno da Euro 53 ad Euro 33, riducendo cosi’ l’imposta, gli interessi e le sanzioni.
La C.T.P., riuniti i ricorsi, li accoglieva, affermando che la mancanza di piani attuativi e, comunque, i vincoli paesaggistici ed idrogeologici sussistenti sul terreno per la contiguita’ al fiume Adige, con pericolo di esondazione, escludevano sostanzialmente la natura edificatoria dell’area in esame ai fini I.C.I.. Impugnava l’ente territoriale, chiedendo la riforma della sentenza impugnata e la conferma della pretesa impositiva nei limiti dei nuovi accertamenti rettificati. Resisteva la societa’, eccependo l’inammissibilita’ dell’appello perche’ finalizzato a far valere una pretesa nuova non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente e la maturata decadenza in relazione a due delle annualita’ in contestazione.
La C.T.R. rigettava l’appello, dichiarando la cassazione della materia del contendere e condannando il Comune al pagamento delle spese.
Avverso detta decisione il Comune di Verona propone ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. La societa’ Riva Fire S.P.A. (gia’ Riva Acciai), resiste con controricorso e ricorso incidentale condizionato, articolato in unico motivo, integrato da memoria.
Considerato in diritto
Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 54, e art. 112 c.p.c., per avere la C.T.R. definito il gravame proposto decidendo la questione processuale ritenuta erroneamente oggetto del giudizio d’appello, mentre sussistevano tutte le condizioni per la trattazione della causa nel merito, senza, peraltro, che la controparte avesse richiesto la cessazione della materia del contendere con appello incidentale.
Con la seconda doglianza proposta in via subordinata si deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. b. 546 del 1992, art. 57, per avere la C.T.R. deciso su eccezioni nuove non proposte in primo grado, come la richiesta d’inammissibilita’ dell’appello formulata nelle controdeduzioni avversarie.
Con il terzo motivo si lamentano la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, per avere la C.T.R. ritenuto illegittima la procedura seguita dall’Ufficio tributi, pur riconoscendo che questo aveva chiesto che la pretesa venisse confermata nei limiti dei nuovi accertamenti rettificati, ritenendo che rientrasse nei poteri dell’Ente impositore la riduzione della pretesa originaria, non essendo un nuovo accertamento ma solo una revoca parziale del primo a seguito del recepimento di talune considerazione della contribuente.
Con l’ultima censura si deducono la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., art. 157 c.p.c., commi 1 e 2, per avere la C.T.R. erroneamente ritenuto che il Comune con il deposito dei tre accertamenti in rettifica, avesse modificato sia il petitum che la causa petendi, con conseguente nullita’ dell’intero processo, mentre non era stata introdotta alcuna nuova causa petendi ma solo un ridimensionamento del petitum.
Con l’unico motivo di ricorso incidentale la societa’ lamenta che la C.T.R. abbia rigettato l’appello anziche’ piu’ correttamente dichiararlo inammissibile.
Occorre in via pregiudiziale riunire il ricorso n. 6922 del 2006 a quello n. 3345 del 2006 ex art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la stessa sentenza.
Il ricorso principale e’ infondato.
Lamenta sostanzialmente il Comune che la C.T.R. abbia ritenuto illegittima la procedura seguita dall’Ufficio Tributi, pur riconoscendo che questo aveva chiesto che la pretesa venisse confermata nei limiti dei nuovi accertamenti rettificati, sostenendo che rientrasse nei poteri dell’Ente impositore la riduzione della pretesa originaria, non essendo un nuovo accertamento ma solo una revoca parziale del primo. Conseguentemente contesta la decisione di cassazione della materia del contendere emessa dai giudici del gravame sulla base dell’annullamento dei pregressi atti di accertamento.
La possibilita’ per l’Amministrazione di emettere piu’ avvisi di accertamento nei confronti dello stesso contribuente ed aveva ad oggetto il medesimo presupposto d’imposta e’ circoscritta, nell’ordinamento vigente, a casi ben determinati, e non puo’ essere riconosciuta indiscriminatamente. Peraltro, non si puo’ neppure in corso di causa sostituire gli atti oggetto del giudizio.
Infatti questa Corte ha gia’ avuto modo di pronunciarsi su questioni analoghe, statuendo che “in tema di imposta di registro, l’emissione di un nuovo avviso di liquidazione, con il quale il competente Ufficio del registro ha modificato in aumento il precedente avviso, integrando una pretesa tributaria nuova, rispetto a quella originaria, sostituisce quella precedente con caducazione d’ufficio di quest’ultimo; ne consegue la cessazione della materia del contendere nel giudizio avente ad oggetto il relativo rapporto sostanziale venendo meno l’interesse ad una decisione relativa ad un atto – di primo avviso – sulla cui base non possono piu’ essere avanzate pretese tributarie di alcun genere, dovendosi avere riguardo unicamente al nuovo avviso che lo ha sostituito”. (Cfr. ex multis, Cass. civ. Sent. nn. 16704 del 2007, n. 16792 del 2002, in tema d’imposta sui redditi).
Detto principio e’ completamente condiviso dal collegio.
Conseguentemente, i (Ndr: testo originale non comprensibile) del ricorso principale rende superfluo l’esame del ricorso incidentale che puo’ essere dichiarato assorbito.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorso, respinge il principale, dichiara assorbito quello incidentale e condanna il Comune alle spese che si liquidano in Euro 2.200,00, di cui Euro 2.000,00, per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge

Necessità di fatti nuovi per l’accertamento integrativo

Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 17 marzo 2010, n. 6459
Rilevato in fatto
A seguito di verifica della Guardia di finanza di Palermo presso la […] s.r.l. ([…]), l’Ufficio I.V.A.
di quella città notificava, in data 25.7.1994, a detta società avviso di rettifica I.V.A. n. 846011/94
con il quale si determinava per l’anno d’imposta 1991, un maggiore imponibile; successivamente
l’ufficio notificava alla contribuente altro avviso integrativo del precedente n. 847011/94 emesso
sulla base di un ulteriore p.v.c. della Guardia di finanza notificato il 3.6.1994. Con tale ultimo
avviso veniva contestato alla società il rinvenimento di altri assegni tratti dalla società Nobile
Giuseppe e girati alla […] senza che risultassero tra loro rapporti commerciali o fatture.
Avverso tale ultimo atto, con ricorso del 31.10.1995, la contribuente adiva la C.T.P. di Palermo,
lamentando l’illegittimità e l’infondatezza dei rilievi sostenendo che gli assegni erano stati dati in
pagamento da altro soggetto esportatore abituale e, pertanto, non soggetto ad I.V.A.. Resisteva
l’Ufficio, contestando detta tesi.
Con successiva memoria del 18.4.1998, la società negava l’esistenza dei presupposti per
l’emissione dell’avviso di rettifica integrativo dell’altro atto, nel frattempo, annullato dalla C.T.P. e
come tale idoneo a travolgere l’atto successivo e che, peraltro, non era fondato su nuovi elementi in
quanto già nel precedente p.v.c. e nell’atto integrato erano stati esaminati alcuni assegni.
All’udienza l’Ufficio eccepiva la novità e l’inammissibilità delle contestazioni fondate sul carattere
integrativo dell’avviso.
La C.T.P. rigettava detta eccezione ed accoglieva il ricorso, ritenendo non sufficientemente provata
l’evasione d’imposta sulla base degli assegni.
Appellava l’Ufficio contestando la mancanza di novità degli elementi fondanti l’avviso integrativo
perchè contenuti nel nuovo p.v.c. del 3.6.1994.
La C.T.R. respingeva il gravame ritenendo violato il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, in quanto gli
elementi fondanti il secondo avviso non potevano dirsi sopravvenuti al primo, dato che alla data
della notifica di quest’ultimo (25.7.1994), essi dovevano essere già noti in quanto derivati da p.v.c.
del 3.6.1994.
Avverso detta decisione propone, integrato da memoria, la società […] S.p.A.; incorporante la […],
contestando quanto ex adverso sostenuto.
Considerato in diritto
Con il primo motivo si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 1, per non
avere la C.T.R. annullato la pronuncia di primo grado che avrebbe dovuto dichiarare inammissibile
la questione accolta in quanto proposta non con il ricorso introduttivo ma solo con successiva
memoria e, quindi, in violazione dell’art. 57 citato. Nè a tale censura poteva attribuirsi il carattere di
mera illustrazione della domanda di globale annullamento formulata nel ricorso.
Si eccepisce, inoltre, l’inammissibilità dell’argomentazione di parte, accolta dalla C.T.R., per cui la
violazione dell’art. 57, si concreterebbe nella posteriorità della notifica dell’atto integrato rispetto al
p.v.c. posto a fondamento di quello integrativo, eccepita soltanto nelle controdeduzioni di appello.
Con la seconda censura si deduce la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, e dell’art. 2697
c.c., per avere la C.T.R. ritenuto che l’atto integrativo non contenesse elementi nuovi per il solo
fatto che il contenuto del p.v.c. di supporto all’atto integrativo fosse precedente alla notifica del
primo avviso di rettifica, non considerando che il contenuto della seconda rettifica fosse diversa per
contenuto dalla prima. Si sostiene, inoltre, che tale eventuale violazione non sarebbe prevista a pena
di nullità a differenza dalla mancata indicazione dei nuovi elementi, restando peraltro a carico della
parte privata che sostenga la duplicazione dei rilievi contenuti nel secondo atto provare la veridicità
della propria affermazione.
Con l’ultimo motivo si lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, per avere la
C.T.R. negato la novità degli elementi contenuti nell’atto integrativo stante l’enorme differenza
degli importi contestati maggiori di due volte e mezzo rispetto a quelli riportati nell’atto integrato,
ciò che comprova una nuova ed ulteriore evasione.
Afferma, infine, parte ricorrente che la C.T.R. sarebbe incorsa anche in omessa motivazione quando
ritenendo insufficienti le prove fornitegli, non ne abbia disposto l’integrazione d’ufficio ai sensi del
D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 3, vigente all’epoca, senza fornire alcuna giustificazione.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Legittimamente la C.T.R. non ha dichiarato l’inammissibilità della questione relativa alla violazione
del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, ed accolta dalla C.T.P. prospettata dal ricorrente con memoria
successiva al ricorso introduttivo, in quanto il contenzioso era iniziato con la notifica dell’atto
introduttivo, in data 31.10.1995, quindi, sotto la vigenza del D.Lgs. n. 363 del 1972, come
modificato nel 1981, che, a differenza del successivo D.Lgs. n. 546 del 1992, all’art. 19 bis, dispone
che il ricorrente può integrare i motivi del ricorso fino alla data della comunicazione dell’udienza di
discussione conseguentemente la questione introdotta poteva essere esaminata e decisa.
La seconda censura deve essere invece accolta.
È ben vero che l’Ufficio erariale non può emettere un secondo avviso di accertamento o di rettifica
se non in base a nuovi elementi di fatto dei quali sia venuto a conoscenza in epoca successiva
all’emissione dell’atto che si voglia integrare, e l’inesistenza dell’elemento della novità è sanzionata
con la previsione di nullità dell’atto non emesso in conformità del disposto di cui al D.P.R. n. 633
del 1972, art. 57, comma 3.
Infatti, l’art. 57, al comma 3, analogamente al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, dispone: “Fino alla
scadenza del termine stabilito nei commi precedenti le rettifiche e gli accertamenti possono essere
integrati o modificati mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta
conoscenza di nuovi elementi. Nell’avviso devono essere specificamente indicati, a pena di nullità, i
nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell’ufficio delle imposta
sul valore aggiunto”.
Nel caso di specie il primo avviso di accertamento (n. 846011/94) emesso dall’Ufficio I.V.A. risulta
notificato il 25.7.1994, mentre per il processo verbale di constatazione della Guardia di finanza
(sulla base del quale lo stesso Ufficio I.V.A. avrebbe successivamente redatto il secondo avviso di
accertamento integrativo del primo (n. 847011/94) notificato il 31.10.1995) è incontestato tra le
parti che sia stato notificato il 3.6.1994, quindi in data anteriore alla notifica del primo
accertamento, per cui la società, sulla base di tali dati cronologici, ha chiesto l’annullamento del
secondo avviso di accertamento perchè basato su elementi privi del requisito della novità, ritenendo
che nel giugno del 2004 gli elementi di fatto fondanti l’accertamento integrativo erano già
conosciuti dall’ufficio. Tuttavia tali date non costituiscono prova che l’Ufficio fosse a conoscenza
di quanto contenuto nel verbale di constatazione nè dalla sentenza risulta che sia stato eseguito
alcun accertamento di fatto sul punto, essendo peraltro possibile che il verbale di verifica redatto
dalla Guardia di finanza N.R. di Palermo, al momento della notifica al contribuente, non fosse
ancora stato inviato all’ufficio e non fosse quindi conoscibile da quest’ultimo. Peraltro, questa
Corte, con le sentenze nn. 18014 del 2005 e 11057 del 2006,con principio, condiviso da questo
Collegio, ha ritenuto che costituiscono dati sopravvenuti, tali da legittimare l’accertamento
integrativo, anche i dati conosciuti da un ufficio fiscale, ma ignoti a quello che emette l’avviso di
accertamento.
Sulla base di questo principio, la C.T.R. non avrebbe dovuto, sic et simpliciter, confermare
l’annullamento dell’avviso integrativo solo sulla base della cronologia sopra evidenziata, ma
avrebbe dovuto accertare, come era nei suoi poteri e suo dovere, data l’esplicita eccezione della
società contribuente, se a quella data (3.6.1994) o alla data della notifica dell’avviso di
accertamento n. 846011/94, successivamente integrato, l’Ufficio I.V.A. fosse o meno a conoscenza
degli elementi di fatto integrativi di detto atto, non essendo sufficiente che gli elementi di fatto
abbiano i requisiti della novità rispetto a quelli di cui all’accertamento integrato ma che occorre
anche la “sopravvenuta conoscenza”e cioè che questi non siano conosciuti dall’ufficio al momento
dell’emissione del primo accertamento. Infatti è principio della giurisprudenza di questa Corte
quello secondo cui: “In tema di accertamento ai fini dell’I.V.A., l’esercizio del potere integrativo o
modificativo dell’accertamento già notificato al contribuente da parte dell’Amministrazione
finanziaria, previsto dal D.P.R. 22 ottobre 1972, n. 633, art. 57, comma 3, che è disciplina posta a
garanzia del contribuente, esige che nel secondo avviso notificato (con integrazioni o
modificazioni) siano indicati non solo i “nuovi elementi”, di cui è venuta a conoscenza
l’Amministrazione, ma anche gli atti e i fatti attraverso i quali questi siano stati acquisiti. Ciò allo
scopo di consentire un controllo sulla effettiva posteriorità dei “fatti” che hanno permesso
all’Amministrazione di acquisire i “nuovi elementi”, idonei a giustificare la diversa pretesa fiscale”.
(cfr., per tutte, Cass. civ. sent. n. 16391 del 2002).
L’accoglimento del secondo motivo rende superfluo l’esame del terzo che può essere dichiarato
assorbito.
Conclusivamente, dichiarata assorbita ogni altra censura, la sentenza della C.T.R. deve essere
cassata in relazione al motivo accolto e la causa va rinviata per un nuovo esame ad altra sezione
della C.T.R. della Sicilia che provvederà anche al governo delle spese di questa fase di legittimità.
P.Q.M.
La Corte respinge il primo motivo, accoglie il secondo, dichiara assorbito il terzo e, cassata la
sentenza impugnata in relazione alla censura accolta, rinvia la causa, anche per le spese, ad altra
sezione della C.T.R. della Sicilia

Se l’avviso di accertamento è nullo può essere integrato dall’Ufficio

Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 3 febbraio 2010, n. 2424
Rilevato in fatto
1.1. M. G. impugnava l’avviso di accertamento emesso dall’Ufficio delle II.DD. di Montichiari con cui, a seguito di indagini bancarie, il reddito di lavoro autonomo relativo all’anno 1993, gia’ dichiarato nella misura di L. 67.076.000, veniva determinato in L. 181.813.000. Veniva eccepita la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 47, rilevandosi che l’accertamento non era fondato su dati certi, essendo per altro viziato da errori di calcolo.
1.2 – Nelle more del giudizio di primo grado l’Ufficio emetteva un avviso di accertamento definito “integrativo” – oggetto di impugnazione autonoma da parte del contribuente – con il quale venivano specificate le aliquote applicate, indicate nel primo provvedimento soltanto con riferimento alla misura massima ed a quella minima.
1.3 – La Commissione tributaria provinciale di Brescia rigettava il ricorso.
1.4 – Proponeva appello il M., deducendo in primo luogo che, essendo stato annullato in via di autotutela il primo provvedimento, la CTP avrebbe dovuto rilevare l’intervenuta cessazione della materia del contendere.
1.5 – La Commissione tributaria regionale della Lombardia confermava la decisione di primo grado, osservando, quanto alla suindicata eccezione di natura procedurale, che l’Ufficio aveva “annullato e sostituito il primo avviso di accertamento con altro successivo solo ed esclusivamente nella parte in cui vi era l’integrazione con l’indicazione delle aliquote degli scaglioni d’imposta, applicabili ai reddito imponibile”.
1.6 Con atto notificato in data 4 aprile marzo 2002 il M. proponeva ricorso per cassazione, nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e dell’Agenzia delle Entrate, avverso detta decisione.
1.7 Si deducevano violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, vizio di motivazione in ordine a un punto decisivo della controversia, ai sensi, rispettivamente, dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ribadendosi l’eccezione di nullita’ dell’avviso di accertamento, per omessa specificazione delle aliquote applicate, non esaminata, ancorche’ ritualmente dedotta e ribadita nel corso dei giudizi di merito.
1.8 Si costituivano con controricorso le parti intimate, contestando la fondatezza dell’impugnazione.
Considerato in diritto
2.1 Rileva preliminarmente il Collegio come risulti del tutto pacifica la circostanza relativa all’emissione, nelle more del giudizio di primo grado, di nuovo avviso di accertamento – impugnato con autonomo ricorso che ha dato vita a un distinto procedimento – di contenuto quasi identico a quello da cui e’ scaturito il presente giudizio, vale a dire del medesimo tenore, con la sola eccezione della specificazione delle aliquote applicate, in un primo momento indicate con il mero riferimento a quella minima e a quella massima.
2.2. – Divergente, tuttavia, e’ la valutazione parti in merito alla portata del secondo avviso: nuovo accertamento emesso in via di autotutela, secondo il contribuente, e tale da costituire un nuovo atto autonomamente impugnabile; mera integrazione, secondo l’assunto, recepito dalla Commissione tributaria regionale, della difesa erariale.
2.3 – Codesta questione assume carattere pregiudiziale, poiche’, ove si acceda alla tesi della caducazione, a seguito del concreto esercizio dei poteri di autotutela dell’amministrazione, del primo provvedimento, impugnato con il ricorso che ha dato vita al presente giudizio, non potrebbe non rilevarsi la cessazione della materia del contendere.
2.4 – Mette conto di evidenziare, in via preliminare, l’infondatezza dell’eccezione dei controricorrenti’ secondo cui la decisione impugnata (in cui non risulta esaminato il vizio dedotto, evidentemente perche’ ritenuto sanato mediante l’atto qualificato come “integrativo”) sarebbe corretta, anche perche’ il M. non
avrebbe dedotto “alcuna cessazione della materia del contendere”. In proposito va richiamato il costante orientamento di questa Corte secondo cui la cessazione della materia del contendere – che deve essere dichiarata dal giudice anche d’ufficio – costituisce, nel rito contenzioso avanti al giudice civile, una fattispecie di estinzione del processo, creata dalla prassi giurisprudenziale, che si verifica quando sopravvenga una situazione che elimini la ragione del contendere delle parti, facendo venire meno l’interesse ad agire e contraddire, e cioe’ l’interesse a ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice, da accertare avendo riguardo all’azione proposta e alle difese svolte dal convenuto. All’emanazione di una sentenza di cessazione della materia del contendere, pertanto, segue, da un lato, la caducazione della sentenza impugnata, a differenza della rinunzia al ricorso, che ne determina il passaggio in giudicato, e dall’altro, l’assoluta inidoneita’ della sentenza di cessazione della materia del contendere ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, limitandosi tale efficacia di giudicato al solo aspetto del venire meno dell’interesse alla prosecuzione del giudizio (Cass., 25 maggio 2007, n. 12310; Cass., 3 marzo 2006, n. 4714).
2.5 – Ne’ si dubita che la sopravvenuta carenza d’interesse a una pronuncia a seguito di cessazione della materia del contendere debba rilevarsi, anche d’ufficio, nel giudizio di legittimita’, a condizione che della situazione che l’abbia determinata sussista la prova, che puo’ essere anche fornita attraverso produzione documentale effettuata ai sensi dell’art. 372 c.p.c., (Cass. Sez. Un., 21 giugno 2007, n. 14385).
2.6 – Con specifico riferimento al procedimento contenzioso in materia tributaria, e’ costantemente affermato il principio secondo cui l’annullamento in via di autotutela di un atto, da parte dell’amministrazione finanziaria, successivamente alla sua impugnazione, determini la sopravvenienza di carenza di interesse, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo (Cass., 2 luglio 2008, n. 18054; Cass., 13 gennaio 2006, n. 634; Cass. 4 febbraio 2005, n. 2305).
In tal senso, depongono, per altro, sia la lettera che la ratio del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 46. Nel regolare la fattispecie della cessazione della materia del contendere nel processo tributario, questa norma, infatti, sancisce perentoriamente ed in via generale che “il giudizio si estingue… nei casi di definizione delle pendenze tributarie e in ogni altro caso di cessazione della materia del contendere” ed appare improntata a chiari intenti deflattivi, anche in considerazione dell’automatico criterio di regolamentazione delle spese processuali, originariamente previsto al comma 3 (con disposizione, poi, dichiarata parzialmente incostituzionale da Corte Cost. n. 274/2005). A tale ultimo proposito, non va trascurato di considerare che – in funzione del principio costituzionale di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., rilevante anche ai fini del processo tributario – le finalita’ deflattive (che l’evoluzione legislativa tende, del resto, costantemente a potenziare, come si evince dalla disposizioni in tema di accertamento con adesione) configurano, senza dubbio, privilegiato canone ermeneutico per una lettura costituzionalmente orientata delle norme che regolano le liti.
3.1 – Tanto premesso, si impone una verifica del rapporto fra l’atto originario e quello successivamente emesso, da effettuarsi sulla base della loro effettiva connotazione, vale a dire prescindendo dal nomen iuris utilizzato dalla parte, in quanto anche gli atti amministrativi, cui vanno generalmente condotti quelli impositivi, vanno interpretati non solo in base al tenore letterale, ma anche risalendo all’effettiva volonta’ dell’amministrazione ed al potere concretamente esercitato (Cons. St., 15 ottobre 2003, n. 6316).
Avuto anche riguardo al quadro normativo in tema di autotutela (D.P.R. n. 287 del 1992, art. 68; D.L. n. 564, art. 2 quater, convertito in L. n. 656 del 1994), mette conto di richiamare l’orientamento di questa Corte secondo cui il potere di accertamento integrativo ha per presupposto un atto (l’avviso di accertamento originariamente adottato) che continua ad esistere e non viene sostituito dal nuovo avviso di accertamento il quale, nella ricorrenza del presupposto della conoscenza di nuovi elementi da parte dell’ufficio, integra e modifica l’oggetto ed il contenuto del primitivo atto cooperando all’integrale determinazione progressiva dell’oggetto dell’imposta, conservando ciascun atto la propria autonoma esistenza ed efficacia, con tutte le conseguenze che ne derivano anche in tema di impugnazione. L’atto di autotutela, invece, assume ad oggetto un precedente atto di accertamento che e’ illegittimo, ed al quale si sostituisce con innovazioni che possono investire tutti gli elementi strutturali dell’atto, costituiti
dai destinatari, dall’oggetto e dal contenuto e puo’ condurre alla mera eliminazione dal mondo giuridico, del precedente o alla sua eliminazione ed alla sua contestuale sostituzione con un nuovo provvedimento diversamente strutturato (Cass., 22 febbraio 2002, n. 25; V. anche Cass., 7 luglio 2009, n. 15874).
3.2. – D’altra parte, ove si accedesse alla tesi della natura integrativa del secondo provvedimento, si perverrebbe al risultato, sostanzialmente conseguito dalla Commissione tributaria regionale, di attribuire efficacia sanante alla motivazione integrativa di un atto gia’ perfezionato (nella specie carente sotto tale profilo e gia’ autonomamente impugnato), privo, per l’appunto, di idonea struttura argomentativa, in netta contrapposizione rispetto al principio secondo cui, come emerge dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, come modificato in attuazione dell’art. 7, dello Statuto del contribuente, non e’ consentito all’ufficio differire a un momento successivo rispetto all’emanazione dell’atto impositivo l’esplicitazione delle ragioni della pretesa impositiva.
4. Tanto premesso, deve constatarsi come sia del tutto pacifico, risultando dal tenore della decisione impugnata, e dalle affermazioni della parti, che nell’avviso di accertamento oggetto del presente giudizio, vale a dire nella sua originaria consistenza, non erano indicate le aliquote applicate. In tale caso, secondo un orientamento condiviso dal Collegio, si verifica una violazione del principio di chiarezza e precisione posto alla base della norma contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, tale da determinare la nullita’ dell’atto impugnato (v. Cass., 20 febbraio 2009, n. 4187; Cass., 11 giugno 2008, n. 15381; Cass., 12 luglio 2006, n. 15834). Alla relativa declaratoria (che, del resto, sarebbe priva di efficacia sostanziale nei confronti del nuovo provvedimento, immune da vizi: Cass., 14 maggio 2007, n. 10949), tuttavia, non e’ dato di pervenire, risultando altrettanto pacificamente dagli atti la circostanza relativa all’emanazione di nuovo avviso di accertamento contenente l’indicazione originariamente omessa, il quale, per le ragioni esposte, non puo’ avere efficacia meramente integrativa e che comporta, quindi, la caducazione del primo atto, con conseguente cessazione di qualsiasi interesse a una pronuncia ad esso inerente (cfr. Cass., 4 ottobre 2006, n. 21380, proprio in tema di atto viziato per omessa indicazione delle aliquote).
5. Deve pertanto dichiararsi la cessazione della materia del contendere, ricorrendo giusti motivi, avuto riguardo alla peculiarita’ della fattispecie, per l’integrale compensazione delle spese dell’interop giudizio.
P.Q.M.
La Corte dichiara cessata la materia del contendere. Dichiara compensate le spese dell’intero giudizio

Accertamento integrativo

Sentenza del 25/05/2009 n. 51
Intitolazione:
Accertamento imposte sui redditi – Avviso di accertamento e
termini – Modifica o integrazione in aumento mediante notifica di
nuovi elementi – Art. 43, comma 3, DPR 29.09.1973, n. 600 – Condizioni e
limiti.
Massima:
Gli accertamenti integrativi, richiamato l’art. 43, comma 3, DPR 29.09.1973,
n. 600, non possono fondarsi sugli stessi elementi di fatto dell’originario
accertamento e comunque la conoscenza dei nuovi elementi deve essere
successiva a quella di cui al notificato originario accertamento. Il
requisito della sopraggiunta conoscenza di nuovi fatti va relazionato alla
data in cui la pregressa rettifica si e’ tradotta in avviso notificato di
modo che restano inutilizzabili gli elementi acquisiti prima di detta
notifica, ancorche’ dopo la redazione del precedente accertamento.

Imposte e tributi – Accertamento – Integrazione o modifica dell’avviso di accertamento – Condizioni

Sentenza Cassazione del 20/06/2007 n. 14377
Intitolazione:
Imposte e tributi – Accertamento – Integrazione o modifica
dell’avviso di accertamento – Condizioni.
Massima:
Non rientra nel divieto, posto dall’art. 43, comma 3, del D.P.R. 29
settembre 1973, n. 600, di modificazione o integrazione dell’accertamento
sulla base degli stessi elementi in possesso dell’ufficio, l’accertamento
che ha per oggetto redditi distinti e diversi da quelli precedentemente
verificati.
*Massima redatta dal Servizio di documentazione economica e tributaria.
Testo:
1. Svolgimento del processo
Il primo ufficio distrettuale delle imposte dirette di Milano notificava
a S.C. un avviso di accertamento ai fini Irpef ed Ilor, relativo al 1991,
integrativo di quello precedentemente notificato con l’ulteriore
contestazione di redditi di capitale non dichiarati per lire 6.584.000.000.
S.C. impugnava l’avviso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale
di Milano, lamentando preliminarmente l’inesistenza della notifica
dell’atto, consegnatogli in fotocopia nella casa circondariale nella quale
era, all’epoca, ristretto.
Deduceva, inoltre, che l’atto in questione costituiva un’inammissibile
integrazione del precedente atto, gia’ da lui impugnato perche’ mancante
dell’indicazione delle aliquote applicate. Il primo accertamento era stato,
nel frattempo, annullato con sentenza della Commissione tributaria
provinciale, la cui decisione era stata confermata in sede d’appello e non
impugnata dall’ufficio. L’accertamento ai fini Ilor era stato,
successivamente, annullato in via di autotutela su sollecitazione
dell’interessato.
Con sentenza in data 8 marzo 1999 la Commissione provinciale, disattesa
la questione di invalidita’ della notifica, accoglieva il ricorso,
osservando:
– era da ritenersi invalida l’utilizzazione di elementi acquisiti in
sede procedimento penale, sui quali si fondava essenzialmente
l’accertamento, trattandosi di copie di documenti che, secondo l’art. 116
del codice di procedura civile, avrebbero dovuto essere rilasciate dal
Presidente di Sezione della Corte d’appello, alla quale era assegnato il
processo, mentre il rilascio era avvenuto ad opera del pubblico mistero al
momento della dichiarazione dei redditi, non sussisteva alcun obbligo di
includervi gli investimenti intrattenuti all’estero, anche perche’ si
trattava di redditi soggetti a ritenuta alla fonte ai sensi degli artt. 26 e
27 del D.P.R. n. 600/1973 e, comunque, ne veniva contestata dall’Autorita’
giudiziaria la provenienza da fatti illeciti, per i quali non vi era obbligo
di dichiarazione;
– anche a prescindere dall’irregolare acquisizione di elementi
probatori del processo penale, vi era da ritenere che l’ufficio non poteva
recepire acriticamente il contenuto del verbale della polizia tributaria,
dovendo sottoporli a propria ed autonoma critica. I processi verbali di
constatazione della Guardia di finanza non possono, infatti, contenere un
accertamento, ma soltanto un rilevamento e una raccolta di dati, fatti e
notizie. Pertanto, una motivazione dell’accertamento per relationem al
processo verbale di constatazione deve considerasi invalida ai sensi
dell’art. 3 della L. n. 241 del 1990.
Con sentenza 29 maggio-28 giugno 2000 la Commissione tributaria
regionale della Lombardia rigettava l’appello dell’ufficio con la seguente
motivazione:
– doveva ritenersi non consentita l’integrazione, ad opera
dell’accertamento impugnato, di un precedente avviso di accertamento affetto
da nullita’. Il Collegio richiamava, in proposito, il principio affermato da
questa Corte nella sentenza n. 10650 del 1997, secondo la quale non e’
consentita l’integrazione o modificazione, attraverso un successivo atto, di
un precedente accertamento radicalmente nullo. Mentre sarebbe ammessa
soltanto una rimozione del precedente atto attraverso l’emanazione del
secondo, con effetto ex tunc. La disciplina dell’art. 43, comma 3, del
D.P.R. n. 600 del 1973 non era pertanto, nella specie, applicabile;
– nella specie il primo accertamento era stato annullato con sentenza
della Commissione tributaria regionale passata in giudicato sulla dedotta,
illegittima integrazione del primo accertamento. L’accoglimento di tale
censura assorbiva ogni altra questione svolta dalle parti.
Avverso tale sentenza il Ministero dell’economia e delle finanze e
l’Agenzia delle Entrate hanno proposto ricorso per cassazione.
Ha resistito con controricorso S.C., il quale ha, altresi’, proposto
ricorso incidentale condizionato.
2. Il motivo del ricorso principale
Con un unico, articolato motivo i ricorrenti denunciano violazione e
falsa applicazione degli artt. 42 e 43 del D.P.R. n. 600 del 1973 e dei
principi generali in materia di nullita’; 112, 113, 114, 155, 166 del codice
di procedura civile e 36 del D.Lgs. n. 546 del 1992; motivazione omessa,
insufficiente, contraddittoria.
Secondo la difesa dell’Amministrazione, la sentenza richiamata nella
decisione impugnata non avrebbe la portata affermata dalla Commissione
tributaria regionale. Nella sentenza, infatti, viene semplicemente affermato
che, in caso di nullita’ dell’accertamento, l’ufficio ha facolta’ di
emetterne un altro. Sarebbe, invece, da escludere che la nullita’ del primo
accertamento (nel caso di specie, dichiarata per omessa indicazione delle
aliquote) si comunichi al secondo, emesso ai sensi dell’art. 43, comma 3,
del D.P.R. n. 600 del 1973. L’avviso di accertamento integrativo e’,
infatti, atto autonomo e distinto (la norma parla di nuovo avviso), avente
una propria materia e in possesso di tutti i requisiti di cui all’art. 42
del D.P.R. n. 600 del 1973. Non vi sarebbe, pertanto, alcuna ragione di
tutela del contribuente la quale imponga di considerare nullo l’avviso di
accertamento integrativo, sacrificando, cosi’, interessi di rango
costituzionale, quali quello del reperimento delle risorse essenziali al
funzionamento dello Stato e il concorso alle spese pubbliche secondo la
propria capacita’ contributiva, quando, come nella specie, l’atto
integrativo sia in possesso di tutti gli elementi richiesti dall’art. 42.
I giudici di merito non avrebbero, inoltre, considerato che l’avviso di
accertamento integrativo si riferiva a redditi del tutto distinti da quelli
oggetto dell’accertamento originario, e a loro volta oggetto di altri
processi verbali di constatazione.
Infatti, il primo atto si riferiva a un reddito, attribuito a S.C. e
alla moglie, soggetto a tassazione ordinaria, derivante dall’attivita’
svolta da S.C. nelle vicende di “tangentopoli”; il secondo concerneva un
reddito di capitale soggetto a tassazione separata, attribuito al solo S.C.
e derivante da investimenti all’estero.
Il secondo avviso recava tutti gli elementi prescritti, e cioe’
l’imponibile accertato, le aliquote applicate, le imposte liquidate al lordo
e al netto, le norme applicate, i motivi di fatto e di diritto
dell’accertamento, e in particolare i nuovi elementi che l’avevano
consentito. L’atto, infine, era sottoscritto dal funzionario competente ed
era stato notificato nel termine di cui all’art. 43, comma 1, del D.P.R.
n.æ600 del 1973.
3. I motivi del ricorso incidentale
3.1. In via pregiudiziale la difesa di S.C. denuncia il difetto di
legittimazione dei ricorrenti.
Sostiene che, secondo gli artt. 57, 61 e 62, comma 2, del D.Lgs. 30
luglio 1999, n. 300, al Ministero delle finanze (attualmente, dell’economia
e delle finanze) sono subentrate in tutti i rapporti giuridici le Agenzie
fiscali, e precisamente l’ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate.
Pertanto, l’amministrazione centrale dell’Agenzia e il Ministero sono da
considerarsi privi di legittimazione.
Condizionatamente all’accoglimento delle censure proposte col ricorso,
vengono, quindi, svolti i motivi che seguono.
3.2. Col primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 42 del D.P.R. n. 600 del 1973.
Deduce che correttamente i primi giudici avevano ritenuto l’irritualita’
dell’utilizzazione degli elementi acquisiti al procedimento penale per
incompetenza dell’organo giudiziario che aveva rilasciato l’autorizzazione.
Quest’ultima, secondo l’art. 33 del D.P.R. n. 600 del 1973, doveva essere
concessa dall’autorita’ procedente, non esistendo una competenza funzionale
del pubblico ministero. Inoltre, l’autorizzazione era priva di qualsiasi
motivazione.
Ancora, l’appello dell’ufficio non conteneva alcun riferimento al
divieto della prova testimoniale nel processo tributario, contenuto
nell’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992. Nella specie erano state utilizzate
prove testimoniali, e rogatorie internazionali disposte in violazione del
principio di specialita’ a seguito delle riserve espresse da Svizzera e
Lussemburgo.
In proposito il ricorrente deduce:
a) le prove su cui si era basato il procedimento amministrativo erano
pedissequamente tratte dalle rogatorie internazionali del processo E., in
palese violazione della Convenzione di assistenza giudiziaria in materia
penale, secondo cui deve ritenersi esclusa ogni utilizzazione delle
rogatorie e “delle informazioni ivi contenute nell’ambito di una procedura
fiscale a carattere penale o amministrativo”;
b) il processo verbale di constatazione e’ stato integralmente
fondato su tali prove e rogatorie;
c) l’ufficio ha recepito in modo totalmente acritico tali elementi,
senza alcuna autonoma e concreta verifica.
3.3. Col secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 4 e 6 della L. 4 agosto 1990, n. 227.
Lamenta che, legittimando la tassazione presuntiva dei frutti in base
alla semplice detenzione, i giudici di merito abbiano omesso di considerare
che la detenzione dei capitali era iure alieno, e non iure proprio. La
presunzione di fruttuosita’ del danaro non opera quando gli accordi
intercorsi sono tali da destinare i frutti ad un soggetto diverso dal
detentore. Le obiezioni opposte dall’ufficio in punto di prova non hanno
tenuto conto dell’avere (sancito, n.d.r.) la sentenza penale che i fondi e i
relativi frutti erano di pertinenza di R.G. e di partiti politici, e che
S.C. era soltanto un intermediario fiduciario di tali soggetti. S.C. non
aveva alcun obbligo di dare tale precisazione, sia perche’ nemo tenetur se
detegere, sia perche’ la norma richiamata escludeva da tale obbligo i
redditi soggetti a ritenuta alla fonte ex art. 26, comma 3, del D.P.R. n.
600 del 1973.
Quanto alla presunzione di fruttuosita’ la quantificazione fatta dalla
Guardia di finanza non aveva tenuto conto dell’art. 6 della L. n. 227 del
1990, il quale prevede che debba essere preventivamente richiesta al
contribuente la prova contraria. Si sarebbe verificata, quindi, una
decadenza dall’accertamento.
3.4. Col secondo motivo, denunciando violazione dell’art. 41-bis del
D.P.R. n. 600 del 1973, il ricorrente lamenta che l’ufficio abbia continuato
a svolgere accertamenti nel periodo d’imposta, utilizzando il procedimento
ex art. 41-bis. Si tratta di violazione di legge rilevabile in ogni stato e
grado del procedimento.
Secondo il ricorrente difettavano i presupposti per l’accertamento
parziale, che puo’ basarsi soltanto su elementi certi e definitivi, mancando
ancora un’istruttoria interna che individui tutti gli elementi reddituali
del soggetto passivo. Nella specie si trattava, invece, di un processo
verbale di constatazione, nel quale venivano rilevati fatti che dovevano
essere vagliati dall’ufficio, unico legittimato all’accertamento, e che non
potevano dar luogo ad automatismo accertativo. Si tratta di nullita’ di
carattere sostanziale, le quali, pertanto, non possono essere sanate dalla
rituale impugnazione dell’atto da parte del contribuente.
3.5. Nel caso in cui si dovesse condividere la tesi, affermata dalla
giurisprudenza di legittimita’, secondo cui la violazione dell’art. 33,
comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973 non determinerebbe nullita’
dell’accertamento, il ricorrente solleva questione di illegittimita’
costituzionale in relazione agli artt. 3, 24, 97 e 113 della Costituzione e
ai principi di certezza e trasparenza dei rapporti tra Fisco e contribuente,
di affidamento e di motivazione degli atti.
Viene rilevato, in proposito, che il D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ha
confermato la necessita’ della previa autorizzazione dell’Autorita’
giudiziaria per la trasmissione di dati alla sede amministrativa tributaria.
Il principio affermato da questa Corte, secondo cui non esisterebbe un
principio generale di inutilizzabilita’ delle prove assunte contro divieti
legislativi, contrasterebbe con quello enunciato dalla giurisprudenza
costituzionale (sentenza 6 aprile 1973, n. 34), secondo la quale le
attivita’ compiute in dispregio dei diritti fondamentali del cittadino non
possono essere assunte di per se’ a giustificazione e a fondamento di atti
processuali a carico di chi quelle attivita’ costituzionalmente illegittime
abbia subito.
Sempre dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 51 del 18
febbraio 1992) emerge il principio dell’obbligo di motivazione.
Infine, il riconoscimento di una facolta’ insindacabile della Guardia di
finanza di trasmettere agli uffici finanziari dati non conoscibili
dall’imputato e dai terzi costituirebbe una impar condicio tra ufficio e
contribuente, che non ha parita’ di accesso ad atti che lo riguardano, e in
particolare a quelli a lui favorevoli, non ancora accessibili perche’
coperti dal segreto delle indagini.
4. Motivi della decisione
4.1. Preliminarmente deve disporsi la riunione dei ricorsi, in quanto
proposti avverso la stessa sentenza.
Sempre in via preliminare deve essere esaminata la questione di
inammissibilita’ del ricorso principale, per essere stato lo stesso proposto
dall’Amministrazione finanziaria dello Stato quando era gia’ operativa
l’Agenzia delle Entrate, ed essendo attribuita la legittimazione soltanto
all’ufficio periferico di quest’ultima.
La questione e’ infondata. Il Collegio aderisce pienamente ai principi
affermati dalle sentenze delle Sezioni Unite n. 3116 e 3118 del 14 febbraio
2006, secondo le quali, nei processi instaurati prima dell’attribuzione di
operativita’ all’Agenzia (1 gennaio 2001), si verifica una successione a
titolo particolare di tale ente all’Amministrazione finanziaria, regolata
dall’art. 111 del codice di procedura civile, con mantenimento della
qualita’ di parte di quella originaria, salva l’ipotesi di una sua
estromissione, e con formazione di un litisconsorzio processuale nei
confronti dell’Agenzia delle Entrate. Pertanto, essendosi il litisconsorzio
formato successivamente alla sentenza impugnata, la legittimazione era
attribuita al Ministero dell’economia e delle finanze, che non risultava
estromesso. Quanto alla necessaria partecipazione dell’Agenzia, la stessa e’
avvenuta mediante la proposizione del ricorso, oltre che da parte del
Ministero, da parte del rappresentante centrale dell’ente attraverso il
patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. Secondo un principio affermato dalle
citate sentenze delle Sezioni Unite, alle quali il Collegio aderisce, la
legittimazione al ricorso per cassazione deve considerarsi attribuita
all’ente – secondo le regole dettate per le persone giuridiche – sia
attraverso la propria struttura centrale, sia attraverso quella periferica.
4.2. Passando all’esame delle censure svolte dalle Amministrazioni
ricorrenti, le stesse meritano accoglimento.
La sentenza impugnata si fonda, infatti, su un errore di prospettiva,
la’ dove compie un’indebita contaminatio tra i principi che regolano la
correzione di vizi degli atti, nell’ambito del doveroso esercizio del potere
impositivo, e il divieto, posto dall’art. 43, comma 3, del D.P.R. 29
settembre 1973, n. 600, di modificazione o integrazione dell’accertamento
sulla base degli stessi elementi in possesso dell’ufficio.
Nella specie si deve ritenere che l’atto impugnato non costituisca una
mera integrazione di quello precedentemente annullato in via
giurisdizionale, ma esercizio dell’ordinario – e doveroso – potere di
accertamento, in relazione a redditi diversi da quelli precedentemente
accertati, in ottemperanza ad una pronuncia giurisdizionale di annullamento.
Si puo’ ricondurre l’atto impugnato nel presente processo – nella parte
in cui venivano indicate le aliquote applicate – anche al generale potere di
autotutela dell’Amministrazione, pur tenendosi conto del fatto che, nella
specie, l’ufficio non era di fronte alla scelta discrezionale insita in tale
potere, stante il gia’ richiamato dovere di ottemperanza al giudicato di
annullamento, al quale aveva gia’ adempiuto annullando l’accertamento
relativo all’Ilor. Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato
(decisione n. 1233 del 1 ottobre 1999) e’ legittimo l’esercizio del potere
di autotutela anche nei confronti di atti annullati in sede giurisdizionale,
attraverso la modificazione di presupposti di fatto e la rimozione o
integrazione delle parti oggetto della statuizione di illegittimita’.
Nel caso di specie, l’ufficio non si e’ limitato ad integrare le parti
dell’accertamento che davano luogo ad invalidita’, ma ha esercitato, con le
forme e nei termini stabiliti, il proprio potere di accertamento, che non si
era consumato attraverso l’emanazione degli atti annullati, ottemperando
alla pronuncia di annullamento, come aveva gia’ fatto annullando d’ufficio
l’accertamento relativo all’Ilor. Si tratta, come si e’ gia’ precisato, di
un atto doveroso, costituente esercizio del potere impositivo che,
nell’ordinamento fiscale, non puo’ avere carattere discrezionale.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla Commissione tributaria regionale,
non era affatto necessaria l’emanazione di uno specifico atto di
annullamento, oltre tutto inutile, stante l’intervenuta pronuncia
giurisdizionale passata in giudicato e l’intervenuto annullamento
dell’accertamento relativo all’Ilor, in ottemperanza al giudicato.
Trattandosi di originario esercizio del potere di accertamento si deve
considerare del tutto improprio il riferimento all’ipotesi dell’accertamento
integrativo regolato dall’art. 43, comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973, la
quale concerne soltanto i casi in cui i due atti si integrano tra loro,
giungendosi all’aumento del reddito imponibile, e che puo’ avvenire soltanto
sulla base di nuovi elementi, e non su una diversa o piu’ approfondita
valutazione di quelli che erano gia’ in possesso dell’ufficio.
Oltre tutto, nella specie non era controverso il fatto che la conoscenza
delle disponibilita’ all’estero era avvenuta successivamente
all’accertamento annullato.
La sentenza deve, pertanto, essere cassata, con rinvio ad altra Sezione
della Commissione tributaria regionale della Lombardia e con assorbimento
del ricorso incidentale.
I giudici di rinvio dovranno pertanto, considerato l’atto impugnato come
nuovo ed autonomo accertamento, esaminare le questioni svolte nel ricorso
incidentale, verificando preliminarmente se le stesse siano state dedotte
nel ricorso introduttivo e ritualmente riproposte in appello.
Ai giudici di rinvio e’ affidata anche la decisione sulle spese del
presente giudizio di legittimita’.
P.Q.M.
la Corte di Cassazione riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso
principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale; cassa la sentenza
impugnata e rinvia, anche per le spese della presente fase, ad altra Sezione
della Commissione tributaria regionale della Lombardia.
Pagina

Riproposizione dell’accertamento

C.T.R. Sicilia, sentenza del 21/02/2007 n. 2
Intitolazione:

Iva – Avviso di rettifica annullato in autotutela dall’A.F. e
riproposto con le stesse modalita’ del primo accertamento –
Illegittimita’ – Art.68 DPR 287/92 – Art.43 DPR 600/73 – Art.57 DPR
633/72 –
Massima:
L’avviso di accertamento di rettifica del reddito dichiarato,
successivamente annullato dall’A.F. in autotutela, per avvenuta
archiviazione del procedimento penale a carico del contribuente, non puo’
essere nuovamente emesso, a seguito della riapertura delle indagini a carico
dello stesso contribuente. La riproposizione del secondo avviso di
accertamento puo’ infatti essere legittimata soltanto in presenza di nuovi
elementi, a prescindere dalla riapertura delle indagini.

Accertamento sostitutivo

Sentenza del 20/11/2006 n. 24620
Intitolazione:
Invim – Avviso di liquidazione – Modificazione dell’avviso di
accertamento – Poteri di autotutela dell’ufficio tributario – Limiti.
Massima:
L’art. 43 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nella parte in cui consente
modificazioni dell’avviso di accertamento soltanto in caso di sopravvenienza
di nuovi elementi di conoscenza da parte dell’ufficio, non opera con
riguardo ad avviso nullo (nella specie, per omessa indicazione dell’aliquota
applicata), alla cui rinnovazione ex nunc l’Amministrazione e’ legittimata
in virtu’ del potere, che le compete, di correggere gli errori dei propri
provvedimenti nei termini di legge, salvo che l’atto rinnovato non
costituisca elusione o violazione dell’eventuale giudicato formatosi
sull’atto nullo.
Testo:
Svolgimento del processo
La Commissione tributaria regionale della Toscana con la sentenza in
epigrafe indicata rigettava l’appello avanzato dall’Ufficio del registro di
Siena avverso la decisione della Commissione tributaria provinciale di Siena
con la quale era stato accolto il ricorso avanzato dalla Azienda Agricola
L.V. avverso l’avviso di liquidazione dell’imposta Invim notificato in data
10 maggio 1994 in sostituzione di precedente avviso notificato il 9 marzo
1994 ed autonomamente annullato dall’ufficio stesso.
Rilevano i giudici regionali, nel confermare la sentenza impugnata, che
l’avviso di liquidazione opposto andava annullato nella considerazione che
il precedente avviso di liquidazione notificato il 9 marzo 1994, che dalla
stessa Commissione era stato dichiarato nullo, non aveva concluso il suo
iter normale di giudizio e durante questo iter non poteva essere integrato
ne’ tanto meno sostituito.
Con ricorso notificato in data 12 settembre 2001 il Ministero
dell’economia e delle finanze nonche’ l’Agenzia delle Entrate proponevano
ricorso per cassazione, illustrato da memoria, sostenuto da due motivi con i
quali rispettivamente deducevano: 1) violazione e falsa applicazione
dell’art. 112 del codice di procedura civile nonche’ omessa, insufficiente,
contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia
sostenendo che la Commissione tributaria regionale si era pronunciata
sull’insussistente presupposto che l’avviso notificato il 10 maggio 1994
fosse sostitutivo di altro precedente avviso notificato il 9 marzo 1994, di
qui la confusione in cui era incorsa la Commissione tributaria regionale in
relazione a due distinte vicende processuali e di qui l’omesso esame dello
specifico motivo di appello diretto a far valere tale confusione; 2)
violazione e falsa applicazione dell’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973 nonche’
omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione in punto di ritenuto
illegittimo esercizio del potere di annullamento della Pubblica
Amministrazione non essendosi ancora formato il giudicato sul primo avviso.
La controparte si costituiva resistendo al gravame.
Motivi della decisione
Il primo mezzo di gravame e’ infondato.
Invero costituisce principio di diritto nella giurisprudenza di questa
Suprema Corte che il travisamento dei fatti, quale dedotto da parte
ricorrente con la prima censura, non puo’ costituire motivo di ricorso per
cassazione, poiche’, risolvendosi nell’inesatta percezione, da parte del
giudice, di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento,
in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo, costituisce un
errore denunciabile con il mezzo della revocazione, ex art. 395, n. 4), del
codice di procedura civile (cfr. per tutte Cass. n. 4864/2005), importando
detto vizio un accertamento di merito non consentito in sede di legittimita’
(Cass. n. 3024/2002).
Il secondo motivo del ricorso e’ fondato.
E’ insegnamento, infatti, di questa Corte, come ribadito da Cass.
n.æ11114/2003, che “L’art. 43 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nella
parte in cui consente modificazioni dell’avviso di accertamento soltanto in
caso di sopravvenienza di nuovi elementi di conoscenza da parte
dell’ufficio, non opera con riguardo ad avviso nullo (nella specie, per
omessa indicazione dell’aliquota applicata), alla cui rinnovazione ex nunc
l’Amministrazione e’ legittimata in virtu’ del potere, che le compete, di
correggere gli errori dei propri provvedimenti nei termini di legge, salvo
che l’atto rinnovato non costituisca elusione o violazione dell’eventuale
giudicato formatosi sull’atto nullo” (Cass. 8 aprile 1992, n. 4303; cfr.
anche Cass. n. 2576/1990).
Alla luce della tutela bilanciata delle ragioni del contribuente nel
contraddittorio del processo e di quelle dell’Erario nella realizzazione del
suo credito d’imposta, l’autotutela dovra’ essere posta in essere
dall’Amministrazione senza che la stessa si risolva nella compressione dei
diritti del contribuente e senza la lesione dei principi che regolano il
contraddittorio processuale. Il potere, pertanto, dovra’ essere esercitato
entro il termine accordato per il compimento dell’atto stesso, e quindi
sempre che non si siano verificate decadenze per l’emissione dell’atto.
L’emissione non potra’ avere luogo in presenza di giudicato formatosi
sul rapporto tributario controverso, si’ da costituire elusione o violazione
dell’eventuale giudicato formatosi sull’atto oggetto dell’autotutela.
Ulteriore condizione, infine, dovra’ essere ravvisata nella riconosciuta
presenza di una causa di nullita’ formale dell’atto. L’emissione del nuovo
atto impositivo, avente il medesimo contenuto e riferito agli stessi anni di
imposta, dovra’ essere preceduta dall’annullamento del precedente atto
impositivo, ai fini della tutela delle regioni di difesa del contribuente e
del divieto della plurima imposizione in dipendenza dello stesso presupposto
ex art. 67 del D.P.R. n. 600/1973 (cfr. Cass. n. 3951/2002).
Nel caso di specie invece, la Commissione tributaria regionale ha
proceduto all’annullamento del secondo avviso sul presupposto che
l’Amministrazione non potesse procedere all’emissione di un nuovo avviso
previo annullamento del precedente stante la pendenza del giudizio di
impugnazione su quest’ultimo.
Di contro non essendo intervenuto giudicato sul primo avviso
l’Amministrazione ben poteva ritenersi legittimata a correggere gli errori
dei propri provvedimenti in presenza di atto nullo (cfr., ex plurimis, Cass.
n. 1809/1999 e Cass. n. 11608/2001) nel rispetto dei termini decadenziali
per la notifica dell’avviso, previo annullamento del primo atto impositivo,
non costituendo l’atto di rinnovazione elusione o violazione di giudicato
formatosi sull’atto nullo.
Sulla base delle esposte considerazioni pertanto il primo motivo del
ricorso va rigettato ed il secondo motivo del ricorso va accolto con
conseguente annullamento, in relazione al motivo accolto, della sentenza
impugnata e rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimita’, ad
altra Sezione della Commissione tributaria regionale della Toscana.
P.Q.M.
la Corte accoglie il secondo motivo del ricorso, rigetta il primo e
cassa, in relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata e rinvia, anche
per le spese del giudizio di legittimita’, ad altra Sezione della
Commissione tributaria regionale della Toscana.