Contraddittorio generalizzato: il difensore tributario entra subito in campo

La riforma del procedimento e del processo tributario ha comportato un anticipo della fase cruciale della difesa del contribuente. Mentre prima della novella era consentito riservarsi il colpo a sorpresa per il processo, oggi l’articolo 6bis dello Statuto, che introduce il contraddittorio pressoché generalizzato, costringe sia l’Agenzia delle Entrate che il contribuente a mostrare le proprie carte sin dalla redazione dello schema d’atto e dalle conseguenti osservazioni del contribuente. Diventa pertanto cruciale che il difensore tributario entri in campo sin dalle prime battute del rapporto con l’Agenzia delle Entrate: a differenza di un tempo, una cattiva gestione della fase preliminare potrà difficilmente essere aggiustata in fase processuale.

Legge di bilancio 2023: contrasto alle partite IVA “apri e chiudi”

La legge di bilancio per il 2023 ha rafforzato il contrasto alle cosiddette partite IVA “apri e chiudi”.
L’Agenzia delle Entrate, in presenza del riscontro di particolari profili di rischio, può convocare il contribuente presso i propri uffici per chiedere ulteriore documentazione. In caso di esito negativo ai controlli o di mancata presentazione presso l’ufficio, l’Agenzia delle Entrate emana il provvedimento di cessazione della partita IVA, con contestuale irrogazione nei confronti della persona fisica destinataria del provvedimento di cessazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di 3.000 euro.
Nel corso del passaggio parlamentare si è esclusa la responsabilità solidale per l’intermediario che ha trasmesso la dichiarazione di inizio attività relativamente al mancato pagamento della predetta sanzione.
La richiesta di nuova partita IVA può avvenire esclusivamente, previo rilascio di polizza fideiussoria o fideiussione bancaria per la durata di tre anni dalla data del rilascio e per un importo rapportato alle eventuali somme dovute a seguito di violazioni fiscali e comunque non inferiore a 50.000 euro.

Detassazione delle mance

Dal 1° gennaio del 2023, le somme destinate dai clienti a titolo di liberalità (ossia le cosiddette mance) nei settori della ristorazione e dell’attività ricettive saranno tassate, salvo rinuncia scritta del lavoratore, con un’imposta fissa del 5% in luogo dell’Irpef ordinaria.

Opposizione al disconoscimento dei costi del dominus che ospita collaboratori con partita IVA

L’Agenzia delle Entrate disconosce i costi del titolare dello studio professionale, che sarebbero in parte da attribuire ai collaboratori ed ai praticanti che lavorano per lo studio. Entrambi i collaboratori operavano esclusivamente su pazienti del dominus, con il coordinamento di quest’ultimo, ricevendone un compenso per le prestazioni rese. Nessun rapporto economico intercorreva, invece, tra i collaboratori ed i clienti dello studio.

L’addebito dell’ufficio deriva dalla non corretta applicazione dei principi esposti nella documentazione di prassi[1] ed in una isolata sentenza della Corte di Cassazione[2] evocate nell’avviso di accertamento. Secondo tali pronunce, nel caso in cui più professionisti condividano lo studio, i costi devono essere tra loro ripartiti, non potendo essere sostenuti (e dedotti) da uno solo.

Notificando il provvedimento impugnato, l’ente accertatore dimostra di non comprendere la sostanziale differenza che sussistente tra i rapporti di suddivisione delle spese comuni tra professionisti autonomi ed il contratto con il quale i giovani professionisti sono inseriti negli studi professionali per collaborare nell’attività di questi. La necessaria ripartizione delle spese sostenute cui fanno riferimento i provvedimenti richiamati, sicuramente applicabili al primo contratto, è del tutto estranea al secondo.

  1. Il contratto per la suddivisione delle spese comuni tra professionisti

E’ un accordo tra più professionisti, senza vincoli associativi, che decidono di esercitare la propria attività autonoma utilizzando gli stessi locali, al fine della ripartizione delle spese comuni. I professionisti coinvolti nell’accordo mantengono l’assoluta autonomia professionale, potendo addirittura svolgere professioni diverse, rivolgendosi alla loro personale clientela, nei confronti della quale svolgono prestazioni autonome.

Dal punto di vista civilistico l’accordo configura un contratto di mandato senza rappresentanza, ai sensi dell’articolo 1705 c.c., tra il professionista intestatario delle utenze o del contratto di affitto (mandatario), che sostiene le spese con il proprio nome, e gli altri professionisti (mandanti), che a loro volta si impegnano a rimborsare il costo sostenuto per le prestazioni.

E’ evidente che, nel caso descritto, la causa del contratto è costituita dall’intento di suddividere le spese dell’attività e, per questo motivo, è corretto affermare che il professionista intestatario dei contratti possa dedurre dal suo reddito solo la parte di spese effettivamente rimasta a suo carico in quanto non riaddebitata ai professionisti con i quali condivide i locali. Tradotto in termini di inerenza ai fini fiscali, i costi sostenuti sono riferibili alle singole attività svolte tra i professionisti e potranno essere da loro dedotte solo per la parte rimasta a carico, a seconda del metodo di suddivisione previsto nell’accordo.

  1. La collaborazione dei giovani professionisti negli studi professionali

Tutt’altra disciplina si applica al contratto con il quale un collaboratore si impegna a prestare attività di consulenza in favore del professionista titolare dello studio, ricevendone un compenso.

Dal punto di vista civilistico tale contratto si qualifica come contratto di prestazione d’opera professionale ed è regolato dagli articoli 2230 e seguenti del codice civile. Con il perfezionamento del contratto il collaboratore si impegna esclusivamente a fornire la sua opera intellettuale in cambio di un compenso. Oggetto del contratto è unicamente la prestazione intellettuale, non essendo previsto che il collaboratore disponga di una propria organizzazione di mezzi attraverso la quale fornire le prestazioni.

Il collaboratore, in questi casi, opera esclusivamente sui clienti del professionista titolare, nei confronti del quale egli assume obbligazioni. E’ da escludersi, quindi, che il collaboratore si obblighi nei confronti dei clienti dello studio. In questo modo il collaboratore assume le vesti di fattore produttivo per il conseguimento degli onorari da parte del titolare, al pari dei dipendenti, dell’energia elettrica e degli strumenti utilizzati. E’ per questo motivo che, in questo caso, non ha senso parlare di suddivisione delle spese comuni, poiché il collaboratore non utilizza le dotazioni dello studio per produrre il proprio reddito, essendo esso stesso un fattore produttivo. In termini di inerenza, non è corretto sostenere che i costi del personale di segreteria, per l’energia elettrica e del telefono siano funzionali alla produzione dei compensi del collaboratore, essendo gli stessi riferibili esclusivamente all’attività dello studio nel suo complesso e, pertanto, alle prestazioni fatturate del titolare dello studio.

L’esposta precisazione evidenzia l’irrilevanza dei principi esposti dall’ufficio a supporto dell’ipotesi accertativa. Se, infatti, le disposizioni che hanno ad oggetto le modalità di ripartizione e di detrazione fiscale delle spese comuni ben si attagliano al contratto descritto al punto precedente sub a), è di tutta evidenza che nulla hanno a che fare con il contratto descritto alla lettera b).

Nel caso di collaborazione del giovane professionista nello studio non è applicabile il contenuto della Circolare 38/E/2010, punto 3.4[3], che descrive il trattamento fiscale del delle “somme incassate per il riaddebito dei costi ad altri professionisti per l’uso comune degli uffici”. Parimenti infondato è il riferimento alla Circolare 58/E/2001[4], che, infatti, tratta di tema di “Quando più professionisti, senza vincoli associativi, dividono lo stesso studio, si pone il problema della ripartizione delle spese comuni (energia elettrica, telefono ecc.). Si tratta, ancora una volta, della disciplina prevista per il contratto enunciato alla lettera a) del punto precedente.

Risulta infine applicabile solo al contratto di suddivisione delle spese comuni il principio enunciato dalla Corte di Cassazione nella sentenza 16035/2015[5] dove, non a caso, si parla di “rimborsi astrattamente spettanti (…) all’intestatario dello studio professionale, condiviso con altri colleghi”.

Il dominus, nell’anno oggetto di accertamento, esercitava la libera professione nel suo studio odontoiatrico. Per lo svolgimento dell’attività egli impiegava diversi fattori produttivi, tra i quali gli studi medici condotti in forza di un contratto di locazione, il personale di segreteria e i collaboratori.

Lo svolgimento della libera professione negli studi è stata autorizzata dal Comune che ha autorizzato personalmente il titolare dello studio.

Il dominus ed i collaboratori sottoscrissero un contratto di collaborazione professionale, con il quale quest’ultimo si impegnava a fornire esclusivamente la sua opera intellettuale (le sue conoscenze scientifiche e le sue abilità tecniche) nei confronti del primo, ricevendone in cambio un compenso.  Gli appuntamenti con i pazienti erano fissati dal personale di segreteria dipendente del dottor Lucati, su indicazione di quest’ultimo.

I collaboratori svolgevano attività esclusivamente nei confronti dei pazienti dello studio, nei confronti del quale emettevano regolare fattura. Tale affermazione è supportata dal fatto che nessuna autorizzazione sanitaria è stata emessa dal Comune nei confronti dei collaboratori per lo svolgimento autonomo della professione odontoiatrica. In altri termini, i collaboratori non potevano esercitare in proprio l’attività sia perché tale possibilità era loro inibita dal contratto che li legava al dominus, sia dalla mancanza delle prescritte autorizzazioni per l’esercizio in proprio dell’attività.

Alla luce di tutto quanto sopra esposto risulta del tutto infondato il provvedimento impugnato, che ha disconosciuto la deducibilità dei costi del titolare dello studio, poiché lo stesso avrebbe operato “senza documentare che la stessa contribuiva al pagamento delle spese comuni dello studio”. L’ufficio ha avuto modo di rilevare, avendo avuto a lungo a disposizione tutta la documentazione contabile, che nessun contributo è stato versato dai collaboratori per le spese comuni dello studio. Del resto, come più volte ribadito, nessun contributo era dovuto in forza della natura del contratto che legava i due professionisti.

La motivazione sulla quale si fonda l’avviso di accertamento in esame, oltre ad essere palesemente infondata per i motivi sopra addotti, trascura i fondamentali principi vigenti in materia di deducibilità fiscale dei costi, ed in particolare il principio di inerenza. L’articolo 109 del Tuir prevede che Le spese e gli altri componenti negativi (…) sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”.

Poiché tutte le prestazioni svolte nello studio sono fatturate nei confronti dei clienti dal titolare dello studio, le spese sostenute per la gestione di tutta l’attività sono deducibili dal contribuente poiché riferite ai compensi dallo stesso percepiti.

E’ pertanto del tutto evidente l’infondatezza, sia in diritto che nei fatti, del rilievo mosso, che pretenderebbe di attribuire ai collaboratori dello studio addirittura il costo del personale di segreteria impegnato nella produzione dei ricavi del dottor Lucati.

[1] Circolari 38/E/2010 e C.M. 58/E/2001.

[2] Corte di Cassazione, sentenza 16035/2015.

[3] Circolare Agenzia delle Entrate 23 giugno 2010, n. 38/E

3.4 Riaddebito di spese ai colleghi per uso comune di locale. 

D: Come registrare il riaddebito di spese a colleghi per l’uso comune degli uffici, considerando che gli studi di settore prevedono che le spese debbano essere considerate al netto dei riaddebiti? Può infatti accadere che il rimborso avvenga nell’anno successivo al pagamento e che ne derivino, quindi, squadrature con gli studi di settore.

R: Il reddito di lavoro autonomo è determinato dalla differenza tra i compensi percepiti e le spese sostenute. Ai fini reddituali le somme incassate per il riaddebito dei costi ad altri professionisti per l’uso comune degli uffici non costituisce reddito di lavoro autonomo e quindi non rileva quale componente positivo di reddito. E’ corretto ritenere che il costo sostenuto può essere dedotto dal professionista solo parzialmente, vale a dire per la parte riferibile alla attività da lui svolta e non anche per la parte riaddebitata o da riaddebitare ad altri. Infatti la parte di costo riaddebitata o da riaddebitare non è inerente alla attività da questi svolta e quindi non assume rilevanza reddituale quale componente negativo. Nella imputazione delle componenti reddituali al periodo d’imposta il reddito di lavoro autonomo segue il criterio di cassa, principio che può essere derogato solo nelle ipotesi previste. Pertanto il costo rimborsato al professionista dal collega per l’uso comune del locale di esercizio dell’attività nel periodo d’imposta successivo non può considerarsi rilevante ai fini reddituali per il professionista che lo riceve. Detto componente sarà invece rilevante per il professionista (collega), nel periodo d’imposta in cui effettivamente lo corrisponde per l’uso dei locali”.

[4] Circolare Agenzia delle Entrate 18 giugno 2001, n. 58 /E

“Ripartizione delle spese comuni tra professionisti

  1. Quando più professionisti, senza vincoli associativi, dividono lo stesso studio, si pone il problema della ripartizione delle spese comuni (energia elettrica, telefono ecc.). Generalmente accade che uno di essi è intestatario delle forniture dei servizi comuni e lo stesso provvede a ripartire le spese pro quota tra gli altri professionisti. Qual è il trattamento fiscale ai fini delle imposte dirette e indirette di tali rimborsi spese? Tale rimborso va assoggettato all’IVA e considerato un provento diverso ai fini IRPEF, come sostiene la dottrina prevalente, ovvero non sconta né l’IVA né l’IRPEF, in quanto non rappresenta né una cessione di beni né una prestazione di servizi e quindi è da dedurre dalle spese generali del professionista intestatario delle forniture (diminuzione di costi), come sostenuto dalla Libera associazione dottori commercialisti (Ladc) con la norma di comportamento n. 93?
  2. Il riaddebito, da parte di un professionista, delle spese comuni dello studio utilizzato da più professionisti non costituiti in associazione professionale, da lui sostenute, deve essere realizzato attraverso l’emissione di fattura assoggettata ad IVA. Ai fini reddituali, le somme rimborsate dagli altri utilizzatori comportano una riclassificazione in diminuzione del costo sostenuto dal professionista intestatario dell’utenza”.

 

[5] Corte di Cassazione, sentenza 29 luglio 2015, n. 16035: “6.2. I documenti di prassi, cosi come più recentemente chiariti, prospettano una tesi ampiamente condivisibile. Infatti, i rimborsi astrattamente spettanti non costituiscono per l’intestatario dello studio professionale, condiviso con altri colleghi, componenti positivi di reddito bensì minori costi di gestione. Tale impostazione, dunque, fa si che si debba realizzare una esposizione sostanziale delle spese effettivamente sostenute se e in quanto inerenti all’attività di lavoro autonomo realmente svolta da ciascuno, altrimenti risolvendosi l’imputazione integrale dei costi a uno solo dei professionisti condividenti in una sorte di liberalità indiretta, pacificamente non deducibile”.

[6] Art.5 “Il Committente indicherà al Professionista i nominativi dei pazienti sui quali effettuare la prestazione professionale di igiene dentale, fornendo preventivamente i dati di anamnesi indispensabili per una corretta e responsabile esecuzione professionale e fornendo, altresì, sempre preventivamente, l’indicazione prevista dal D.M. n. 137/99”.

Legittimo l’accertamento parziale e induttivo?

L’articolo 7 dello Statuto dei diritti del contribuente[1], l’articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241[2] e, più in particolare in merito al contenuto dell’avviso di accertamento, l’articolo 42 del D.P.R. 29 settembre, n. 600[3], prevedono che gli atti dell’Amministrazione finanziaria siano motivati e debbano recare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che determinano la decisione dell’amministrazione.

La funzione della motivazione risponde al principio di buona amministrazione, ovvero all’esigenza che l’azione amministrativa sia esplicata in modo appropriato in vista del perseguimento dell’interesse presidiato dalla legge. La giurisprudenza della Suprema Corte[4] ha ben spiegato che la motivazione chiarisce “il nesso corrente tra la norma tributaria e l’obbligazione affermata esistente nella situazione concreta, onde circoscrivere la materia del contendere”, precisando che la stessa costituisce lo strumento essenziale di garanzia del diritto di difesa del contribuente, che deve essere posto nelle condizioni di conoscere la pretesa tributaria e le norme in base alle quali la stessa è stata determinata. In merito alla scelta del tipo di accertamento attraverso il quale esercitare il potere impositivo e sanzionatorio, in particolare,  l’Amministrazione non è libera, ma vincolata all’esistenza di precise situazioni di fatto. Il contribuente, pertanto, deve essere posto in grado di conoscere il tipo di accertamento che l’Agenzia delle Entrate ha inteso effettuare nei suoi confronti e le norme che lo prevedono e disciplinano.

Gli atti emessi dall’Agenzia delle entrate sono spesso emessi “ai sensi degli (articoli) 39 comma 2, 41 bis e 43 del D.P.R. 600/1973 e dell’art. 54 del D.P.R. 633/1972”. La dichiarazione è, quantomeno, disorientante per la contribuente, posto che le norme richiamate fanno riferimento a tre tipi di accertamento, aventi presupposti e modalità di esecuzione assolutamente contrastanti, mentre risulta del tutto inconferente il riferimento all’articolo 43 del D.P.R. 600/1973.

L’articolo 39, comma 2, del D.P.R. 600/1973[6] regola l’accertamento induttivo, che consente, a determinate condizioni, di accertare il contribuente prescindendo dalle risultanze delle scritture contabili, avvalendosi di presunzioni “semplicissime”, ovvero prive dei requisiti di gravità precisione e concordanza. L’accesso all’accertamento induttivo è consentito solo a condizione di gravi irregolarità contabili che non consentano di determinare il reddito in modo analitico.

Diversi sono i presupposti che permettono di procedere con l’accertamento regolato dall’articolo 41 bis del D.P.R. 600/73[7], che autorizza i verificatori ad accertare il contribuente, seppur in forma parziale, quando siano in possesso di prove certe che consentano di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato. L’accertamento parziale, quindi, non può essere supportato da presunzioni, ma da elementi certi in possesso dell’amministrazione.

In materia di IVA, poi, l’articolo 54 del D.P.R. 633/72[8] prevede la rettifica delle dichiarazioni sulla base di dati certi o, al più, sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti. E’ escluso che l’articolo possa riguardare accertamenti induttivi fondati su presunzioni semplicissime, poiché tale fattispecie è regolata dal successivo articolo 55 rubricato, appunto “Accertamento induttivo”.

Assolutamente fuorviante è, infine, il riferimento all’articolo 43 del D.P.R. 600/73[9], poiché lo stesso non regola un tipo di accertamento ma il termine per effettuarli.

In questi casi non è chiaro quale sia il tipo giuridico sul quale è stato costruito l’avviso di accertamento impugnato. Questo tipi di accertamento in una prima parte evidenziano rilievi che sembrano introdurre un accertamento analitico (“la società risultava aver illegittimamente dedotto dal reddito d’impresa costi non documentati”). In altre parti, il raffronto con la redditività e l’incidenza dei costi sembra far riferimento ad un accertamento fondato su presunzioni ex articolo 39, comma 2, del DPR 600/73.

Il diritto di difesa del contribuente, nel caso in esame, risulta assolutamente confiscato, risultando praticamente impossibile opporsi ad un atto assolutamente carente sotto il profilo logico, oltre che fattuale.

 

[1] Legge 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1.

[2] Legge 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, comma 1.

[3] D.P.R. 29 settembre, n. 600,  art. 42, comma 2.

[4] Corte di Cassazione, sentenza 17 ottobre 2014, n. 22003.

[6] D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, articolo 39, comma 2: In deroga alle disposizioni del comma precedente l’ufficio delle imposte determina il reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui alla lettera d) del precedente comma (…)”.

[7] D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, articolo 41 bis: Senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti dall’articolo 43, i competenti uffici dell’Agenzia delle entrate, qualora dalle attività istruttorie di cui all’articolo 32, primo comma, numeri da 1) a 4), nonché’ dalle segnalazioni effettuati dalla Direzione centrale accertamento, da una Direzione regionale ovvero da un ufficio della medesima Agenzia ovvero di altre Agenzie fiscali, dalla Guardia di finanza o da pubbliche amministrazioni ed enti pubblici oppure dai dati in possesso dell’anagrafe tributaria, risultino elementi che consentono di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato o il maggiore ammontare di un reddito parzialmente dichiarato, che avrebbe dovuto concorrere a formare il reddito imponibile, compresi i redditi da partecipazioni in società, associazioni ed imprese di cui all’articolo 5 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, o l’esistenza di deduzioni, esenzioni ed agevolazioni in tutto o in parte non spettanti, nonché’ l’esistenza di imposte o di maggiori imposte non versate, escluse le ipotesi di cui agli articoli 36-bis e 36-ter, possono limitarsi ad accertare, in base agli elementi predetti, il reddito o il maggior reddito imponibili, ovvero la maggiore imposta da versare, anche avvalendosi delle procedure previste dal decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218. Non si applica la disposizione dell’articolo 44.

[8] D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, articolo 54: “L’Ufficio dell’imposta sul valore aggiunto procede alla rettifica della dichiarazione annuale presentata dal contribuente quando ritiene che ne risulti un’imposta inferiore a quella dovuta ovvero una eccedenza detraibile o rimborsabile superiore a quella spettante. L’infedeltà della dichiarazione, qualora non emerga o direttamente dal contenuto di essa o dal confronto con gli elementi di calcolo delle liquidazioni di cui agli artt. 27 e 33 e con le precedenti dichiarazioni annuali, deve essere accertata mediante il confronto tra gli elementi indicati nella dichiarazione e quelli annotati nei registri di cui agli artt. 23, 24 e 25 e mediante il controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni sulla scorta delle fatture ed altri documenti, delle risultanze di altre scritture contabili e degli altri dati e notizie raccolti nei modi previsti negli artt. 51 e 51-bis. Le omissioni e le false o inesatte indicazioni possono essere indirettamente desunte da tali risultanze, dati e notizie a norma dell’art. 53 o anche sulla base di presunzioni semplici, purché’ queste siano gravi, precise e concordanti. L’ufficio può tuttavia procedere alla rettifica indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità del contribuente qualora l’esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione, o l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione, risulti in modo certo e diretto, e non in via presuntiva, da verbali, questionari e fatture di cui ai numeri 2), 3) e 4) del secondo comma dell’articolo 51, dagli elenchi allegati alle dichiarazioni di altri contribuenti o da verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti, nonché da altri atti e documenti in suo possesso.

[9] D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, articolo 43: “Gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione. Nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione nulla l’avviso di accertamento può essere notificato entro il 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata.  Fino alla scadenza del termine stabilito nei commi precedenti l’accertamento può essere integrato o modificato in aumento mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi da parte dell’Agenzia delle entrate. Nell’avviso devono essere specificamente indicati, a pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell’ufficio delle imposte”.

Come si verifica la tempestiva formazione nel 2020 dell’atto notificato nel 2021 ex Dl 34/2020?

Il comma 1 dell’articolo 157 del D.L. n. 34/2020 (c.d. Decreto rilancio”) ha previsto che gli atti per quali i termini di decadenza scadevano tra l’8 marzo 2020 e il 31 dicembre 2020, devono essere emessi entro il 31 dicembre 2020 e notificati nel periodo compreso tra il 1° marzo 2021 e il 28 febbraio 2022, salvi casi di indifferibilità e urgenza.

In assenza di una data o marca temporale nell’atto notificato, com’è verificabile la tempestiva formazione dell’atto?

Si ritiene posa essere condivisibile che l’avviso di accertamento venga ad esistenza con la sua sottoscrizione da parte di soggetto dotato dei prescritti poteri, prima della quale è tanquam non esset.

La data di formazione dell’atto coincide, quindi, con quella della firma apposta sul file notificato in formato digitale al contribuente.

Si ritiene che, in presenza di firma digitale apposta oltre il 31.12.2020, l’atto debba ritenersi formato oltre il periodo di decadenza e pertanto radicalmente invalido

 

E’ nullo il disconoscimento di costi del professionista che si avvale di collaboratori

Non può essere disconosciuta una parte dei costi di studio al professionista che impiega un collaboratore con partita IVA. Lo ha finalmente sancito la Commissione Tributaria Provinciale di Treviso, invertendo un pericoloso precedente aperto dalla sentenza della Corte di Cassazione, n. 16035/2015, con la quale si è affermato che il titolare dello studio che impieghi collaboratori e praticanti non si può dedurre l’intero ammontare delle spese di studio. La sentenza della Suprema Corte, rimasta fortunatamente isolata, basandosi sulle circolari dell’Agenzia delle Entrate (sic!)  aveva ritenuto che i costi dello studio avrebbero essere dedotti in parti uguali dal dominus, dal collaboratore e dal praticante.

La Commissione Tributaria Provinciale di Treviso (ctp-treviso-sentenza-355-del-9-novembre-2021), ha condiviso i motivi del ricorso, con il quale si era precisato che altra cosa sono dei professionisti che operano negli studi professionali con attività autonoma al fine di dividere i costi, altra cosa è il professionista che, per lo svolgimento dell’attività nei confronti della propria clientela, impiega collaboratori e praticanti.

ctp-treviso-sentenza-355-del-9-novembre-2021

Le scadenze fiscali in epoca Covid 19: come orientarsi nel labirinto

In periodo di epidemia da Covid 19, tra spostamenti, sospensioni e proroghe non è facile orientarsi sulle prossime scadenze fiscali. Il calendario è in continua evoluzione, ma si ritiene utile fare il punto della situazione ad oggi.

Sospensione dei termini di pagamento

Sono sospesi i pagamenti in scadenza dall’8 marzo 2020 al 31 gennaio 2021. Le somme dovute dovranno essere versate entro il 1° marzo 2021. Fino al 31 gennaio, non saranno attivate nuove procedure cautelari o esecutive.

Notifica degli atti di accertamento
Gli atti di accertamento, di contestazione, di irrogazione delle sanzioni, di recupero dei crediti di imposta, di liquidazione e di rettifica e liquidazione, per i quali i termini di decadenza naturali scadono tra l’8 marzo 2020 e il 31 dicembre 2020, sono emessi entro il 31 dicembre 2020 e sono notificati nel periodo compreso tra il 1° febbraio 2021 e il 31 gennaio 2022.
Sospensione dei versamenti
La sospensione opera fino al  31 gennaio 2021.
Pertanto, considerando che i versamenti sospesi devono essere effettuati in un’unica soluzione entro il mese successivo al termine del periodo di sospensione, le somme dovranno essere pagate entro il 28 febbraio 2021.
Avvisi bonari, comunicazioni di irregolarità e altri accertamenti
Dovranno essere comunicati o notificati tra il 1° febbraio 2021 e il 31 gennaio 2022 i seguenti atti:
– comunicazioni di cui agli articoli 36-bis e 36-ter, D.P.R. n. 600/1973;
– comunicazioni di cui all’art. 54-bis, D.P.R. n. 633/1972;
– inviti all’adempimento di cui all’art. 21-bis, D.L. n. 78/2010;
– atti di accertamento dell’addizionale erariale della tassa automobilistica, di cui all’art. 23, comma 21, D.L. n. 98/2011;
– atti di accertamento delle tasse automobilistiche di cui al T.U. 5 febbraio 1953 n. 39 e all’art. 5, D.L. n. 953/1982, limitatamente alle Regioni Friuli Venezia Giulia e Sardegna ai sensi dell’art. 17, comma 10, legge n. 449/1997;
– atti di accertamento per omesso o tardivo versamento della tassa sulle concessioni governative per l’utilizzo di telefoni cellulari di cui alla Tariffa art. 21, D.P.R. n. 641/1972.
Proroga per la notifica delle cartelle di pagamento
I termini di decadenza per la notificazione delle cartelle di pagamento sono prorogati di 13 mesi relativamente alle dichiarazioni presentate nell’anno 2018, per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di liquidazione prevista dagli articoli 36-bis, D.P.R. n. 600/1973 e 54-bis, D.P.R. n. 633/1972. A titolo di esempio, per la dichiarazione dell’anno 2017, presentata nel 2018, il termine per la notifica della cartella di pagamento ex art. 36-bis scade il 31 gennaio 2023. Per la stessa annualità, scade il 31 gennaio 2024 il termine per la notifica della cartella di pagamento ex art. 36-ter.
Sospensione dei pignoramenti
Fino  al 31 gennaio 2021, le somme oggetto di pignoramento non devono essere sottoposte ad alcun vincolo di indisponibilità e il soggetto terzo pignorato deve renderle fruibili al debitore; ciò anche in presenza di assegnazione già disposta dal giudice dell’esecuzione. Cessati gli effetti della sospensione, e quindi a decorrere dal 1° febbraio 2021, riprenderanno ad operare gli obblighi imposti al soggetto terzo debitore (e quindi la necessità di rendere indisponibili le somme oggetto di pignoramento e di versamento all’Agente della riscossione fino alla concorrenza del debito).
Attività di verifica
Fino al 31 gennaio 2021 sono sospese le verifiche di inadempienza che le Pubbliche Amministrazioni e le società a prevalente partecipazione pubblica devono effettuare, ai sensi dell’art. 48 bis del D.P.R. n. 602/1973, prima di disporre pagamenti – a qualunque titolo – di importo superiore a 5.000 euro.

Riduzione del canone: la prova può essere fornita anche se l’accordo non è registrato

L’accordo di riduzione del canone può essere provato in qualsiasi modo, non solo con la registrazione dell’atto. E’ quanto ha stabilito la CTP di Treviso con sentenza 145/2020, accogliendo il ricorso dello studio avverso l’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate. Quest’ultima aveva disconosciuto gli effetti della riduzione, ritenendo che la tempestiva registrazione dell’atto fosse l’unico modo di fornire prova dell’avvenuta riduzione.

I giudici di prime cure hanno accolto il ricorso, ritenendo provata la riduzione con l’esibizione delle scritture contabili del conduttore e la documentazione bancaria attestante i canoni versati.

La sentenza:

ctp-treviso-sentenza12-11-2020-n-145

Per la CTR Veneto valida la notifica via Pec della cartella non firmata digitalmente

La Ctr di Venezia, travisando i motivi di impugnazione, sostiene che le cartelle di pagamento inviate con firma digitale Pades equivalgono a quelle firmate Cades. I provvedimenti impugnati dal contribuente erano, in realtà, privi di firma digitale.

LA SENTENZA:

sentenza-ctr-veneto-3-agosto-2020-n-2902020